Nemmeno la carriera «pro» aveva buttato bene: rilasciato da San Francisco e Houston, durante la serrata era stato offerto a Teramo e a Varese. Ma lui chiedeva la clausola di uscita, nel caso la Nba fosse partita: ecco perché non l’abbiamo visto in Europa. New York l’aveva parcheggiato in fondo alla panchina: per sostenere la regia i Knicks hanno puntato su Baron Davis. Ma quando il «Barone» si è fatto male, seguito nella lista infortunati da Stoudemire e Anthony, l’arrancante D’Antoni ha buttato Lin nella mischia. E il gruppo, da perdente è diventato invincibile. La verità, non a caso il motto di Harvard, è che a basket non si vince con le stelle, bensì con le squadre. Jeremy Lin ne ha scovata una, la sua. E la sta guidando. Non sarà Cenerentola: anche questo è un dettaglio maledettamente affascinante della sua folle esplosione. (articolo di Fabio Vanetti corriere.it)
lunedì 13 febbraio 2012
American Dream - Jeremy Lin
Torna il "Sogno Americano", quel sogno cioè che riesce a concretizzare i sogni...la speranza di tutti. E l'ultimo sogno è diventato realtà per Jeremy Lin, giocatore di basket quasi inesistente ai mass media di tutto il mondo, ma in poche settimane è diventato il fenomeno del momento a cui tutti "adesso" guardano con interesse, o dovrei dire "per interessi". Eh già perchè il mondo dello sport è soprattutto mondo della pubblicità e si sa che lo sport ed i personaggi sportivi fanno vendere molto, soprattutto se parliamo di un ragazzo asiatico e della comunità asiatica che c'è dietro nel mondo, basta pensare che la maglia n°17 ora è la più venduta e la più ricercata. Ma non dimentichiamo che fino a poche settimane fa questo ragazzo dormiva sul divano nella casa del fratello ed era rilegato ad allenarsi in qualche campo dimenticato di New York...Ma è arrivato il suo momento e sta dimostrando il suo valore. Qualcuno già si chiede se è solo la fortuna del principiante...Ma a noi non importa. Ci piace vedere un giovane ragazzo realizzare il suo sogno più importante: giocare in NBA. Forza Jeremy!
La storia di Jeremy Lin, ilplaymaker «signor nessuno» ma laureato ad Harvard, che in una settimana è diventato, nell’ordine, lo sportivo del momento su scala planetaria, il redentore dei New York Knicks e il miglior collante per la traballante panchina di Mike D’Antoni, contiene in realtà una morale che esula dagli immediati risvolti cestistici. La questione, infatti, ha ormai contorni di impatto sociale (le comunità cinesi negli Usa sono impazzite), di comunicazione secondo lo stile del terzo millennio (Lin è diventato un eroe dei social network), di marketing (provate a vedere se trovate ancora, e a che prezzo, una maglia numero 17 dei Knicks...).
Ed è, soprattutto, la prova che la Nba è entrata nella terza epoca della sua storia: se la prima è stata quella dell’autarchia (di pelle bianca o nera, ma giocatori statunitensi al 100%), se nella seconda — avviata un quarto di secolo fa — si è assistito al progressivo afflusso di cestisti del resto del mondo, la terza era è quella nella quale un giocatore è statunitense di natali e di passaporto ma è pure figlio del «melting pot». Il padre di Jeremy emigrò da Taiwan e Lin è così diventato il primo cinese nella Nba ad essere nato sul suolo Usa. Doveva succedere, prima o poi. Ed è un colpo ancora più grande, per la lega professionistica, aver trovato un nuovo personaggio in grado di veicolare il suo messaggio al pubblico asiatico e a un continente giudicato di riferimento: dopo il ritiro di Yao Ming serviva un nuovo campione che sapesse stregare quei mercati e che, come Ali Babà, potesse aprire la porta dietro la quale c’è un tesoro immenso.È chiaro che le iperboli giornalistiche adesso hanno buon gioco: si parla di «Lin-mania», di «Lin-sanity» (follia), di «New York Lin», di «Mamba giallo» da contrapporre al «Mamba nero», cioè Kobe Bryant. Ma la risposta è anche no, perché quanto sta capitando a Lin è una delle cose più entusiasmanti mai registrate nello sport. Jeremy, ben più di una Cenerentola che lascia i lavori umili e va al ballo del re, sta vivendo la gloria, anzi, «il sogno più bello della mia vita», dopo l’anonimato. Anche le università della natia California, in fondo, l’avevano snobbato; la scelta di Harvard derivò da qui, nonostante il ragazzo l’abbia poi legittimata con un videoclip autoprodotto (Le cinque cose necessarie per finire ad Harvard) che danno la misura di quanto sia ironico e simpatico.
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