sabato 12 settembre 2015

"LA RICREAZIONE E' FINITA" di Roger Abravanel e Luca D'Agnese

“Cosa vuoi fare da grande?”. Quante volte ci hanno posto questa domanda; quante volte l’abbiamo formulata noi. Una domanda come si diceva “da 1.000.000 di dollari”; alla quale fino a qualche anno fa si poteva dare una risposta, una strada da percorrere per il medio e lungo periodo.
Sono della generazione degli anni settanta, i quarantenni di oggi. Giovani orientati a intraprendere studi tecnici dove era importante prendere “il pezzo di carta”, essere pratici per trovare il “posto fisso” in una nazione in pieno boom economico. Competenze tecniche più importanti rispetto a quelle che oggi si definiscono “soft skills”; era importante relazionarsi con il territorio locale e la conoscenza delle lingue straniere (es l’inglese) era solo per i pochi che potevano permetterselo (o che avevano genitori di larghe vedute)
Oggi il mondo del lavoro è cambiato, il mondo stesso è oggi “più piccolo”, le distanze si sono accorciate grazie al fatto che gli spostamenti sono più brevi e meno costosi, ma soprattutto dal fatto che si è connessi in tempo reale con il mondo. La conoscenza dell’inglese, non è più complementare al percorso formativo; è un requisito fondamentale per relazionarsi ed essere competitivi in un mercato del lavoro globale.
Per rispondere alla domanda “Cosa vuoi fare da grande?” serve una collaborazione e comunicazione costante tra scuola, famiglia, giovani e mondo del lavoro; mondi che sono in continua evoluzione, trasformazione e innovazione.
Un libro, una riflessione che sarà sicuramente utile a chi opera nelle scuole, nel mondo del lavoro, ma soprattutto ai giovani ed alle loro famiglie.

Scheda
"LA RICREAZIONE E' FINITA" - La disoccupazione giovanile nel nostro Paese ha cause ben più profonde e lontane della crisi economica. Il problema è che i ragazzi italiani non sono preparati al lavoro del Ventunesimo secolo. E le famiglie, con i loro pregiudizi, stereotipi e luoghi comuni, sono spesso le prime fabbriche di disoccupati. Quello che i datori di lavoro cercano oggi nei giovani è molto diverso da ciò che volevano cinquant’anni fa: meno “mestiere” e più senso di responsabilità, spirito critico e capacità di comunicare con gli altri. Per questo i genitori non riescono a capirlo. E per questo la scuola e l’università, a parte poche eccezioni, non riescono a insegnarlo. Ma i giovani italiani e le loro famiglie non possono aspettare la riforma epocale di cui l’istruzione italiana avrebbe bisogno. Hanno domande alle quali è urgente dare una risposta. Quale percorso scolastico scegliere? Perché la laurea non basta più? Quali esperienze extrascolastiche sono più utili? Come trovare il lavoro giusto? Come si può correggere il tiro quando il percorso scelto non porta i risultati sperati? Roger Abravanel e Luca D’Agnese, attraverso l’analisi dei dati più significativi sull’istruzione e sull’occupazione, interviste a imprenditori e responsabili delle risorse umane e racconti in presa diretta di tanti ragazzi che “ce l’hanno fatta”, mostrano come questo sia possibile. Si deve provare da soli a costruire il percorso migliore per sé, perché disegnare il proprio futuro si può.

Autori:
Roger Abravanel: è consigliere di amministrazione di aziende italiane e internazionali. È autore di Meritocrazia (2008) e, con Luca D’Agnese, di Regole (2010) e Italia, cresci o esci (2012). – Luca D’Agnese: è stato partner di McKinsey e amministratore delegato di aziende del settore energetico. Attualmente è responsabile di Enel per l’America Latina


sabato 5 settembre 2015

"L'uomo bianco in quella foto" di Riccardo Gazzaniga

Quante volte abbiamo visto questa foto e ci siamo sempre soffermati sui pugni chiusi alzati, nessuno si è chiesto cosa pensasse "l'uomo bianco in quella foto"… Nemmeno io… Qualche giorno fa ascoltando a radio deejay la trasmissione "Tropicalpizza" ho ascoltato la storia attraverso le parole del giornalista Riccardo Gazzaniga. Da questa storia è stato tratto un film. Se vi ho incuriosito di seguito l'articolo e la sua storia. Buona lettura

L'UOMO BIANCO IN QUELLA FOTO
Le fotografie, a volte, ingannano.
Prendete questa immagine, per esempio. 
Racconta il gesto di ribellione di Tommie Smith e John Carlos il giorno della premiazione dei 200 metri alle Olimpiadi di Città del Messico e mi ha ingannato un sacco di volte.
L’ho sempre guardata concentrandomi sui due uomini neri scalzi, con il capo chino e il pugno guantato di nero verso il cielo, mentre suona l’inno americano. Un gesto simbolico fortissimo, per rivendicare la tutela dei diritti delle popolazioni afroamericane in un anno di tragedie come la morte di Martin Luther King e Bob Kennedy.
È la foto del gesto storico di due uomini di colore. Per questo non ho mai osservato troppo quell’uomo, bianco come me, immobile sul secondo gradino.

L’ho considerato una presenza casuale, una comparsa, una specie di intruso. Anzi, ho perfino creduto che quel tizio – doveva essere un inglese smorfioso – rappresentasse, nella sua glaciale immobilità, la volontà di resistenza al cambiamento che Smith e Carlos invocavano con il loro grido silenzioso.
Invece sono stato ingannato. 
Grazie a un vecchio articolo di Gianni Mura, oggi ho scoperto la verità: l’uomo bianco nella foto è, forse, l’eroe più grande emerso da quella notte del 1968.
Si chiamava Peter Norman, era australiano e arrivò alla finale dei 200 metri dopo aver corso un fantastico 20.22 in semifinale. Solo i due americani Tommie “The Jet” Smith e John Carlos avevano fatto meglio: 20.14 il primo e 20.12 il secondo.
La vittoria si sarebbe decisa tra loro due, Norman era uno sconosciuto cui giravano bene le cose. John Carlos, anni dopo, disse di essersi chiesto da dove fosse uscito quel piccoletto bianco. Un uomo di un metro settantotto che correva veloce come lui e Smith, che superavano entrambi il metro e novanta.
Arrivò la finale e l’outsider Peter Norman corse la gara della vita, migliorandosi ancora. Chiuse in 20.06, sua prestazione migliore di sempre e record australiano ancora oggi imbattuto, a 47 anni di distanza.
Ma quel record non bastò, perché Tommie Smith era davvero “The jet” e rispose con il record del mondo. Abbatté il muro dei venti secondi, primo uomo della storia, chiudendo in 19.82 e prendendosi l’oro.
John Carlos arrivò terzo di un soffio, dietro la sorpresa Norman, unico bianco in mezzo ai fuoriclasse di colore.
Fu una gara bellissima, insomma.
Eppure quella gara non sarà mai ricordata quanto la sua premiazione.

Non passò molto dalla fine della corsa perché si capisse che sarebbe successo qualcosa di forte, di inaudito, al momento di salire sul podio.
Smith e Carlos avevano deciso di portare davanti al mondo intero la loro battaglia per i diritti umani e la voce girava tra gli atleti.
Norman era un bianco e veniva dall’Australia, un paese che aveva leggi di apartheid dure quasi come quelle sudafricane. Anche in Australia c’erano tensioni e proteste di piazza a seguito delle pesanti restrizioni all’immigrazione non bianca e leggi discriminatorie verso gli aborigeni, tra cui le tremende adozioni forzate di bambini nativi a vantaggio di famiglie di bianchi. 
I due americani chiesero a Norman se lui credesse nei diritti umani.
Norman rispose di sì.
Gli chiesero se credeva in Dio e lui, che aveva un passato nell’esercito della salvezza, rispose ancora sì.
“Sapevamo che andavamo a fare qualcosa ben al di là di qualsiasi competizione sportiva e lui disse “sarò con voi” – ricorda John Carlos – Mi aspettavo di vedere paura negli occhi di Norman, invece ci vidi amore”. 
Smith e Carlos avevano deciso di salire sul podio portando al petto uno stemma del Progetto Olimpico per i Diritti Umani, un movimento di atleti solidali con le battaglie di uguaglianza.
Avrebbero ritirato le medaglie scalzi, a rappresentare la povertà degli uomini di colore. E avrebbero indossato i famosi guanti di pelle nera, simbolo delle lotte delle Pantere Nere.
Ma prima di andare sul podio si resero conto di avere un solo paio di guanti neri.
“Prendetene uno a testa” suggerì il corridore bianco e loro accettarono il consiglio.
Ma poi Norman fece qualcos’altro.
“Io credo in quello in cui credete voi. Avete uno di quelli anche per me?“ chiese indicando lo stemma del Progetto per i Diritti Umani sul petto degli altri due. “Così posso mostrare la mia solidarietà alla vostra causa”.
Smith ammise di essere rimasto stupito e aver pensato: “Ma che vuole questo bianco australiano? Ha vinto la sua medaglia d’argento, che se la prenda e basta!”.
Così gli rispose di no, anche perché non si sarebbe privato del suo stemma. Ma con loro c’era un canottiere americano bianco, Paul Hoffman, attivista del Progetto Olimpico per i Diritti Umani. Aveva ascoltato tutto e pensò che “se un australiano bianco voleva uno di quegli stemmi, per Dio, doveva averlo!”. Hoffman non esitò: “Gli diedi l’unico che avevo: il mio”.
I tre uscirono sul campo e salirono sul podio: il resto è passato alla storia, con la potenza di quella foto.
“Non ho visto cosa succedeva dietro di me – raccontò Norman – Ma ho capito che stava andando come avevano programmato quando una voce nella folla iniziò a cantare l’inno Americano, ma poi smise. Lo stadio divenne silenzioso”.
Il capo delegazione americano giurò che i suoi atleti avrebbero pagato per tutta la vita quel gesto che non c’entrava nulla con lo sport. Immediatamente Smith e Carlos furono esclusi dal team americano e cacciati dal villaggio olimpico, mentre il canottiere Hoffman veniva accusato pure lui di cospirazione.
Tornati a casa i due velocisti ebbero pesantissime ripercussioni e minacce di morte.
Ma il tempo, alla fine, ha dato loro ragione e sono diventati paladini della lotta per i diritti umani. Sono stati riabilitati, collaborando con il team americano di atletica e per loro è stata eretta una statua all’Università di San José.
In questa statua non c’è Peter Norman.
Quel posto vuoto sembra l’epitaffio di un eroe di cui nessuno si è mai accorto. Un atleta dimenticato, anzi, cancellato, prima di tutto dal suo paese, l’Australia.
Quattro anni dopo Messico 1968, in occasione delle Olimpiadi di Monaco, Norman non fu convocato nella squadra di velocisti australiani, pur avendo corso per ben 13 volte sotto il tempo di qualificazione dei 200 metri e per 5 sotto quello dei 100.
Per questa delusione, lasciò l’atletica agonistica, continuando a correre a livello amatoriale.
In patria, nell’Australia bianca che voleva resistere al cambiamento, fu trattato come un reietto, la famiglia screditata, il lavoro quasi impossibile da trovare. Fece l’insegnante di ginnastica, continuò le sua battaglie come sindacalista e lavorò saltuariamente in una macelleria. Un infortunio gli causò una grave cancrena e incorse in problemi di depressione e alcolismo.
Come disse John Carlos “Se a noi due ci presero a calci nel culo a turno, Peter affrontò un paese intero e soffrì da solo”.
Per anni Norman ebbe una sola possibilità di salvarsi: fu invitato a condannare il gesto dei suoi colleghi Tommie Smith e John Carlos, in cambio di un perdono da parte del sistema che lo aveva ostracizzato. Un perdono che gli avrebbe permesso di trovare un lavoro fisso tramite il comitato olimpico australiano ed essere parte dell’organizzazione delle Olimpiadi di Sidney 2000.
Ma lui non mollò e non condannò mai la scelta dei due americani.
Era il più grande sprinter australiano mai vissuto e detentore del record sui 200, eppure non ebbe neppure un invito alle Olimpiadi di Sidney. Fu il comitato olimpico americano, una volta scoperta la notizia a chiedergli di aggregarsi al proprio gruppo e a invitarlo alla festa di compleanno del campione Michael Johnson per cui Peter Norman era un modello e un eroe.
Norman morì improvvisamente per un attacco cardiaco nel 2006, senza che il suo paese lo avesse mai riabilitato.
Al funerale Tommie Smith e John Carlos, amici di Norman da quel lontano 1968, ne portarono la bara sulle spalle, salutandolo come un eroe.
“Peter è stato un soldato solitario. Ha scelto consapevolmente di fare da agnello sacrificale nel nome dei diritti umani. Non c’è nessuno più di lui che l’Australia dovrebbe onorare, riconoscere e apprezzare” disse John Carlos.
“Ha pagato il prezzo della sua scelta – spiegò Tommie Smith – Non è stato semplicemente un gesto per aiutare noi due, è stata una SUA battaglia. È stato un uomo bianco, un uomo bianco australiano tra due uomini di colore, in piedi nel momento della vittoria, tutti nel nome della stessa cosa”.
Solo nel 2012 il Parlamento Australiano ha approvato una tardiva dichiarazione per scusarsi con Peter Norman e riabilitarlo alla storia con queste parole: 
“Questo Parlamento riconosce lo straordinario risultato atletico di Peter Norman che vinse la medaglia d’argento nei 200 metri a Città del Messico, in un tempo di 20.06, ancora oggi record australiano.
Riconosce il coraggio di Peter Norman nell’indossare il simbolo del Progetto OIimpico per i Diritti umani sul podio, in solidarietà con Tommie Smith e John Carlos, che fecero il saluto del “potere nero”.
Si scusa tardivamente con Peter Norman per l’errore commesso non mandandolo alle Olimpiadi del 1972 di Monaco, nonostante si fosse ripetutamente qualificato e riconosce il potentissimo ruolo che Peter Norman giocò nel perseguire l’uguaglianza razziale”.
Ma, forse, le parole che ricordano meglio di tutti Peter Norman sono quelle semplici eppure definitive con cui lui stesso spiegò le ragioni del suo gesto, in occasione del film documentario “Salute”, girato dal nipote Matt.
“Non vedevo il perché un uomo nero non potesse bere la stessa acqua da una fontana, prendere lo stesso pullman o andare alla stessa scuola di un uomo bianco.
Era un’ingiustizia sociale per la qualche nulla potevo fare da dove ero, ma certamente io la detestavo.
È stato detto che condividere il mio argento con tutto quello che accadde quella notte alla premiazione abbia oscurato la mia performance.
Invece è il contrario.
Lo devo confessare: io sono stato piuttosto fiero di farne parte”.

(Riccardo Gazzaniga)