sabato 24 settembre 2011

"Volevo solo vendere la pizza" di L.Furini


Prima di dare una mia opinione, mi piace documentarmi il più possibile sui fatti. Su un libro, su un film o semplicemente su un tema di discussione. Da diversi mesi ero incuriosito dal libro di Luigi Furini (leggi il suo blog) "Volevo solo vendere pizza" che narra "le disavventure di un piccolo imprenditore"; incuriosito perchè come sapete (e come già ne ho scritto altre volte) il mio sogno nel cassetto è quello di mettermi in proprio. Incuriosito ed attratto dall'argomento inizio subito la lettura e subito dopo le prime pagine iniziano nella mia mente le prime domande, alle quali inizialmente non do tanto peso in quanto curioso di arrivare alla fine del libro per avere finalmente un quadro completo sull'argomento.
Il libro, secondo me, è scritto molto bene (la prefazione di Marco Travaglio fa un'ottima introduzione) ed oltre ad esporre i fatti, descrive anche lo stato d'animo del protagonista (alcune volte in modo tragicomico) di questa "storia vera" che in questo caso è l'autore stesso.
Nella mia vita professionale ho imparato fin ora (e non si finisce mai di imparare) che qualsiasi professione/attività non si improvvisa ma richiede COMPETENZA e FORMAZIONE. Queste due lacune ho riscontrato alla base di questa storia.
Come leggerete qui di seguito il libro narra la storia di una persona, un giornalista, che decide di aprire una pizzeria e si ritrova catapultato in una realtà professionale e burocratica al di fuori dell'immaginabile per chi fino a quel punto si era occupato di giornalismo. Il nostro "neo imprenditore" si sorprende quando sente parlare di corsi di formazione, normative, cade dalle nuvole quando sente parlare di HACCP.
Per chi come me è nel settore della ristorazione, usare un linguaggio simile è cosa normale, ma è normale perchè nel tempo ho avuto modo di acquisire COMPETENZA e PROFESSIONALITA' attraverso una FORMAZIONE COSTANTE. E' come se io decidessi domani di diventare giornalista: senza formazione, competenza e conoscenza del sistema sarei destinato al fallimento.
Un altro tallone d'Achille che ho riscontrato nella storia è il fatto che il nostro neo imprenditore non aveva nessuna esperienza nel campo della pizzeria non aveva fatto mai il pizzaiolo.
Mi spiego meglio: non è detto che puoi aprire una pizzeria solo se sai fare la pizza o che sarai sempre impiegato a fare il pizzaiolo nella tua attività, avere esperienza diretta di pizzaiolo ti aiuta in una corretta gestione del laboratorio, dei fornitori/ingredienti, dei sistemi produttivi. Ti aiuta anche quando si verificano situazioni come nel libro, che diversi pizzaioli abbandonano il posto di lavoro, e che lasciano l'imprenditore in balia del destino. Un imprenditore FORMATO e COMPETENTE in una situazione del genere si sarebbe messo in cucina a "sfornare le pizze" garantendo cosi il "core business dell'impresa".

Il libro però mette in evidenza una triste realtà, che sto provando anch'io sulla mia pelle, aprire un'attività in Italia è dieci volte più difficile rispetto ad altri stati, in quanto la burocrazia e le leggi hanno diverse interpretazioni da regione a regione, provincia a provincia, ed addirittura tra comuni. Le stesse leggi hanno diverse interpretazioni ed applicazioni a seconda del controllo o autorizzazione richiesta: quello che va bene per la ASL non va bene per i NAS, quello che va bene per l'ispettorato del lavoro non va bene per i vigili del fuoco, ecc. A tutto questo si aggiunge l'incapacità di un sistema bancario diffidente (in alcuni casi giustamente) sulle nuove iniziative imprenditoriali. Finanziamenti europei, inaccessibili ed inutili (in quanto i soldi arrivano, quando arrivano, a consuntivo) che si rivolgono solo a persone disoccupate o disagiate, che spesso mancano di competenze; a discapito di chi vuole passare da dipendente a imprenditore, cercando di realizzare il proprio sogno.
Tutti ci dicono, e lo sappiamo, che stiamo attraversando un periodo difficile, un periodo di CRISI. La crisi, dal mio punto di vista è una cosa positiva: dalla crisi si possono sviluppare nuove opportunità, come ci narra anche Mario Calabresi nel suo libro "Cosa tiene accese le stelle". Ma occorre, soprattutto oggi, tanta competenza, tanto studio. Nulla può essere lasciato al caso perchè il "rischio d'impresa" va minimizzato il più possibile. Bisogna creare delle sinergie affinchè la nuova impresa abbia solide fondamenta, che non vuol dire solo dal punto di vista economico. Per come è strutturato oggi il nostro sistema, è molto difficile pensare a qualsiasi attività come "impresa individuale", poichè le attività sono molteplici come moltecipli sono anche gli adempimenti burocratici e normativi.
Vi lascio alla lettura dell'introduzione del libro con una citazione tratta da Gianluca Gambirasio (autore di diversi libri autorevoli) che dice: "Il valore di un'idea sta nel metterla in pratica"

VOLEVO SOLO VENDERE LA PIZZA -Dove è più facile aprire un’impresa? In un Paese dove si possono fare affari con relativa semplicità. Non è dunque il caso dell’Italia che nella classifica della Banca Mondiale è all’82esimo posto, dietro potenze – con tutto il rispetto – del calibro di Kazakhistan, Serbia, Giordania e Colombia. Il merito – si fa per dire – è della nostra infernale burocrazia. Così almeno la pensa il giornalista Luigi Furini che in ‘Volevo solo vendere la pizza’ (Garzanti editore) racconta una storia che se non fosse vera – avendo avuto lui stesso protagonista - potrebbe tranquillamente essere la sceneggiatura di un film comico.

Un saggio divertente sull’opprimente dittatura della burocrazia Ecco la storia. Un giorno l'autore - ex sindacalista Cigl, attualmente giornalista del Gruppo l’Espresso - ha la brillante idea di cambiare attività e di aprire una pizzeria da asporto nel centro di Pavia. L'idea nasce parlandone con l’amico di sempre proprio stando seduti al tavolo di una pizzeria: due conti e la conclusione che quella del pizzaiolo e un’attività che può diventare molto redditizia. La moglie sulle prime ha qualche perplessità, ma poi decide di assecondare il progetto del marito e il suo desiderio di diventare imprenditore: “Ci metto un forno e un bancone. Vuoi vedere che funziona?”. Sulla carta sembra tutto facile.
Così Luigi ci prova. Trova il locale e comincia a seguire i corsi di primo soccorso, quello antincendio, quello sulla prevenzione degli infortuni. Frequenta commercialisti e avvocati. Informa le ‘lavoratrici gestanti’ dei rischi che corrono. Sistema le cose con l'Asl: i regolamenti sull'igiene e l'obbligo di installare le numerose trappole per i topi.Compra centinaia di marche da bollo, compila e paga un'infinità di bollettini postali. Sei mesi dopo e con 100mila euro in meno apre finalmente l'attività: il tanto desiderato negozio di pizza da asporto che si chiama Tango.E qui comincia l'avventura. Luigi lavora 14 ore al giorno, si trova a dover fare i conti con i cosiddetti ‘lavoratori’ e con i sindacati. Risultato: dopo due anni chiuderà bottega.

1 commento:

Anonimo ha detto...

autore del libro individua dei mali cronici: l'infernale burocrazia, i sindacati, l'iniqua pressione fiscale....
Se volessimo estendere il discorso potremmo aggiungere l'articolo 18 et similia.
Se gli imprenditori italiani sono fuggiti in massa all'estero ci sarà un motivo.
E' appunto qui che il problema si fa spinoso.
Da dove - o da chi - provengono questi mali?
Non derivano forse da quella mentalità, oggi molto diffusa, per la quale l'imprenditore è visto come un nemico, un ladro e non come qualcuno che crea ricchezza e posti di lavoro?
Non è forse quella mentalità che vede l'iniziativa privata come il fumo negli occhi?
E questo genere di mentalità non nasce proprio da quel mondo culturale di cui l'autore fa parte e per il quale ha lavorato molti anni come giornalista?
In altre parole, il titolo del libro avrebbe potuto essere: "abbiamo scavato una fossa e ci siamo caduti dentro!".
Verrebbe da dire: lacrime di coccodrillo!
Ben venga se iniziano ad aprire gli occhi.

Buona giornata, Gianpiero.