E' da un pò che penso di affrontare questo argomento (e chi mi conosce magari certe riflessioni me le ha sentite dire), ma non sapevo proprio come iniziare, visto che il tema è estremamente complesso, vasto e delicato, in quanto vi sono delle dinamiche tecniche difficili da capire e spiegare. Questo post sarà il primo di una serie che ho deciso di chiamare "Pianeta Cina" al fine d capire alcune dinamiche che ormai si sono inserite nel nostro tessuto sociale. Ma quantone sappiamo veramente della Cina? Cosa c'è dietro la produzione di una semplice t-shirt o un paio di pantaloni?
Voglio fare però una piccola premessa:
- ritengo che TUTTI gli esseri umani, senza divisioni di razza religione, Paese di appartenenza debbano avere gli stessi diritti umanitari (universalmente riconosciuti) e trattati nel medesimo modo in tutto il mondo
- che la schiavitù vada condannata e combattuta in tutte le forme in cui si manifesta, vedi la schiavitù moderna basata sulla produzione di prodotti in Stati poveri
- che dobbiamo essere orgogliosi del nostro made in Italy, valorizzare la produzione in Italia; ma questa spinta deve partire dagli imprenditori italiani supportati dallo Stato Italiano
- che questi prodotti siano venduti ad un prezzo equo senza speculazioni (come invece avviene adesso nonostante la produzione nei paesi asiatici)
Bene, dopo questa doverosa premessa, vi sottopongo e spero sia di vostro interesse, la lettura dell'articolo sottostante.
tratto da "Style magazine" di aprile 2010 - appunti di economia di Dario Di Vico
QUEI CINESI POLITICAMENTE SCORRETTI - E' forse giunto il momento di operare una riflessione pacata sui nostri rapporti economici con il pianeta Cina. La situazione è preoccupante. E' sempre più chiaro che la fascia bassa (ma larga) dell'industria manifatturiera italiana patisce la concorrenza dei prodotti cinesi, in virtù di alcuni obiettivi vantaggi di sistema che gli asiatici hanno (costo e flessibilità della manodopera, dimensioni del mercato interno) e di alcune palesi irregolarità (condizioni di lavoro ai limiti dello schiavismo, clonazione di prodotti e marchi, uso di sostanze fuori dalle regole). Questo modello di business fortemente aggressivo sui prezzi mette fuori mercato le nostre piccole imprese e l'artigianato in molti settori, e i produttori italiani alle prese con una concorrenza asimmetrica hanno la netta sensazione di essere lasciati completamente soli. Gli imprenditori, sicuramente quelli che operano nel tessile abbigliamento nell'arredamento e in altri comparti del made in Italy, pensano che sia stato un errore permettere nel 1999 a Pechino di entrare nel Wto senza sufficienti contropartite, senza un negoziato che tutelasse maggiormente i produttori nazionali. Si è fatta strada in questi mesi l'idea che i governanti di allora abbiano agito sulla base di una genuina spinta liberale all'integrazione dei mercati e all'inclusione dei Paesi terzi, non avendo però minimamente presenti le ricadute sull'offerta italiana.
Che sia corretta o no, questa visione è diventata maggioritaria dentro diverse associazioni di rappresentanza e persino all'interno del Parlamento. Non è un caso che la legge sulla difesa del made in Italy (la Reguzzoni-Versace) sia stata approvata a larghissima maggioranza alla Camera, in ragione del fatto che i deputati del centro-sinistra pensano sia necessario proteggere in forme nuove i nostri artigiani tessili. Ma avendo mancato l'biettivo 11 anni fa al Wto di Seattle, è credibile oggi rilanciarlo in condizioni differenti e meno favorevoli per l'Europa?
Anche la collaborazione con i cinesi che vivono e lavorano in Italia non induce all'ottimismo. Le ricerche sul campo testimoniano come il flusso delle rimesse verso la madrepatria siano in costante aumento (e nei primi 7 mesi del 2009 sono salite del 28,8%), mentre l'integrazione reale non faccia passi in avanti. La collaborazione tra le comunità cinesi e le wautorità italiane va avanti a singhiozzo, per dirla in termini eufemistici. E questa considerazione vale per la "Chinatown milanese", ma soprattutto per Prato. Il caso toscano è sicuramente un unicum, ma proprio per questo può rappresentare la chiave di volta per una discussione pubblica meno politically correct e più pragmatica . A Prato non solo c'è stata una concentrazione di immigrati dello stesso paese sullo stesso comprensorio, ma è nato un vero distretto industriale parallelo. Laddove i pratesi non avevano avuto la lungimiranza di scendere a valle a produrre direttamente abiti, i cinesi hanno inventato un modello di industria, il pronto moda, perfetto per alcuni Paesi della nuova Europa e per i nostri mercatini rionali. Purtroppo ciò è avvenuto (finora) comprando stoffa e tessuti in Cina e sfruttando i propri connazionali nei laboratori-dormitorio. Un'inversione di tendenza è auspicabile e possibile, ma la riflessione non può essere circoscritta alla sola Toscana. Dovrebbe interessare persino Bruxelles se non prevalessero (miopi) visioni nazionalistiche.
Voglio fare però una piccola premessa:
- ritengo che TUTTI gli esseri umani, senza divisioni di razza religione, Paese di appartenenza debbano avere gli stessi diritti umanitari (universalmente riconosciuti) e trattati nel medesimo modo in tutto il mondo
- che la schiavitù vada condannata e combattuta in tutte le forme in cui si manifesta, vedi la schiavitù moderna basata sulla produzione di prodotti in Stati poveri
- che dobbiamo essere orgogliosi del nostro made in Italy, valorizzare la produzione in Italia; ma questa spinta deve partire dagli imprenditori italiani supportati dallo Stato Italiano
- che questi prodotti siano venduti ad un prezzo equo senza speculazioni (come invece avviene adesso nonostante la produzione nei paesi asiatici)
Bene, dopo questa doverosa premessa, vi sottopongo e spero sia di vostro interesse, la lettura dell'articolo sottostante.
tratto da "Style magazine" di aprile 2010 - appunti di economia di Dario Di Vico
QUEI CINESI POLITICAMENTE SCORRETTI - E' forse giunto il momento di operare una riflessione pacata sui nostri rapporti economici con il pianeta Cina. La situazione è preoccupante. E' sempre più chiaro che la fascia bassa (ma larga) dell'industria manifatturiera italiana patisce la concorrenza dei prodotti cinesi, in virtù di alcuni obiettivi vantaggi di sistema che gli asiatici hanno (costo e flessibilità della manodopera, dimensioni del mercato interno) e di alcune palesi irregolarità (condizioni di lavoro ai limiti dello schiavismo, clonazione di prodotti e marchi, uso di sostanze fuori dalle regole). Questo modello di business fortemente aggressivo sui prezzi mette fuori mercato le nostre piccole imprese e l'artigianato in molti settori, e i produttori italiani alle prese con una concorrenza asimmetrica hanno la netta sensazione di essere lasciati completamente soli. Gli imprenditori, sicuramente quelli che operano nel tessile abbigliamento nell'arredamento e in altri comparti del made in Italy, pensano che sia stato un errore permettere nel 1999 a Pechino di entrare nel Wto senza sufficienti contropartite, senza un negoziato che tutelasse maggiormente i produttori nazionali. Si è fatta strada in questi mesi l'idea che i governanti di allora abbiano agito sulla base di una genuina spinta liberale all'integrazione dei mercati e all'inclusione dei Paesi terzi, non avendo però minimamente presenti le ricadute sull'offerta italiana.
Che sia corretta o no, questa visione è diventata maggioritaria dentro diverse associazioni di rappresentanza e persino all'interno del Parlamento. Non è un caso che la legge sulla difesa del made in Italy (la Reguzzoni-Versace) sia stata approvata a larghissima maggioranza alla Camera, in ragione del fatto che i deputati del centro-sinistra pensano sia necessario proteggere in forme nuove i nostri artigiani tessili. Ma avendo mancato l'biettivo 11 anni fa al Wto di Seattle, è credibile oggi rilanciarlo in condizioni differenti e meno favorevoli per l'Europa?
Anche la collaborazione con i cinesi che vivono e lavorano in Italia non induce all'ottimismo. Le ricerche sul campo testimoniano come il flusso delle rimesse verso la madrepatria siano in costante aumento (e nei primi 7 mesi del 2009 sono salite del 28,8%), mentre l'integrazione reale non faccia passi in avanti. La collaborazione tra le comunità cinesi e le wautorità italiane va avanti a singhiozzo, per dirla in termini eufemistici. E questa considerazione vale per la "Chinatown milanese", ma soprattutto per Prato. Il caso toscano è sicuramente un unicum, ma proprio per questo può rappresentare la chiave di volta per una discussione pubblica meno politically correct e più pragmatica . A Prato non solo c'è stata una concentrazione di immigrati dello stesso paese sullo stesso comprensorio, ma è nato un vero distretto industriale parallelo. Laddove i pratesi non avevano avuto la lungimiranza di scendere a valle a produrre direttamente abiti, i cinesi hanno inventato un modello di industria, il pronto moda, perfetto per alcuni Paesi della nuova Europa e per i nostri mercatini rionali. Purtroppo ciò è avvenuto (finora) comprando stoffa e tessuti in Cina e sfruttando i propri connazionali nei laboratori-dormitorio. Un'inversione di tendenza è auspicabile e possibile, ma la riflessione non può essere circoscritta alla sola Toscana. Dovrebbe interessare persino Bruxelles se non prevalessero (miopi) visioni nazionalistiche.
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