giovedì 19 febbraio 2009

da "Risorse Umane" a PERSONE



Oggi voglio segnalare a voi ed a me stesso, questo libro (scritto da un amico che non ho ancora avuto il piacere di conoscere personalmente ma per il quale nutro una sincera ammirazione) che da questa presentazione si dimostrerà sicuramente interessante per le tematiche affrontate e sono sicuro ci regalerà degli spunti di riflessione che rileggeremo e riparleremo in futuro.…Che dire ancora?...Buona lettura!

Da “risorse umane” A Persone.
Un punto di svolta nel pensiero manageriale contemporaneo
di Stefano Greco

Nell’arco di circa un decennio, le persone hanno subito una specie di metamorfosi kafkiana diventando “risorse umane”. La mutazione si è poi completata di recente con la sigla “HR”, pronunciata con quell’ accento americano che oggi va tanto di moda nei titoli delle fiction mediche e criminali.
Naturalmente, non è una questione soltanto di parole. All’espressione “risorse umane” corrisponde infatti un progressivo degrado del concetto di persona nelle più diverse sfere sociali, dal lavoro alla politica, dall’istruzione alla salute, dall’ambiente all’economia, in Italia come nel resto del mondo. Lavoratori “transbiagici”, “schiavi moderni”, cittadini delusi ed impoveriti da sistemi politico-finanziari in bilico tra l’autoreferenzialità e l’illegalità, studenti sballottati da una riforma all’altra, utenti dei servizi pubblici presi in ostaggio da selvaggi scioperanti: il paradigma delle “risorse umane” va oltre l’azienda per inglobare anche altri contesti organizzativi.
Il punto di svolta atteso ed auspicato è quello del “Ritorno alle Persone” nel senso del concreto recupero della centralità del loro valore nelle organizzazioni e negli altri sistemi sociali.Prima di tutto, bisogna sviluppare consapevolezza sul fatto che non è l’azienda a gestire le risorse umane ma sono le persone a gestire le risorse dell’azienda: materie prime, semilavorati, soldi, tempo, conoscenze, relazioni, procedure, strutture, mezzi e strumenti.
In secondo luogo, responsabili di ogni ordine e grado sono tenuti a ricordare sistematicamente il principio fondamentale secondo il quale: “le scorte di magazzino possono essere gestite, mentre le persone vanno guidate”.
Tuttavia, come accade nella realtà, sulla carta siamo tutti grandi manager ma alla prova dei fatti sono pochi coloro che si dimostrano competenti dal punto di vista della leadership, intesa alla lettera come “funzione del condurre”.
In diverse organizzazioni possiamo trovare:
► Capi troppo seriosi e/o troppo formali, che “predicano bene e razzolano male” o incapaci di gestire i loro problemi personali
► Capi che interpretano il loro ruolo come mero esercizio di autorità e di potere – “chi sta sopra e chi sta sotto”
► Capi che discriminano e/o agiscono per marcate preferenze
► Capi stacanovisti che vedono di buon occhio solo collaboratori altrettanto stacanovisti
► Capi che ci “provano” con le collaboratrici, che molestano le persone chiedendo “favori inopportuni”.
► Capi che praticano il mobbing e/o che fanno pressioni inaccettabili
► Capi chiusi nel loro gretto punto di vista, incapaci di confrontarsi apertamente e/o di accettare il riscontro degli altri.
► Capi che hanno paura di far crescere i loro collaboratori
Tuttavia, il passaggio da “risorse umane” a Persone non è un problema di esclusiva pertinenza di chi comanda. I lavoratori stessi, e quindi ognuno di noi, sono responsabili della qualità del proprio approccio al lavoro e alla vita.
Ecco alcune delle frasi più significative e ricorrenti pronunciate da persone con scarsa autostima, negativizzate da convinzioni e comportamenti distruttivi:
“A che ora attacchi/stacchi?”
“Oggi sono al chiodo”
“ E’ dura passare le otto ore in ufficio!”
“Aspetto solo il 27”
“E’ dura mandare avanti la baracca”
“Il dramma del lunedì mattina”
“Che tristezza il mondo del lavoro!”
“Siamo tutti precari”
“Non vedo l’ora di andarmene in ferie”
“Tra 3 anni me ne vado in pensione!”
“Meno male che domani è venerdì!”
“Domani mi do malato, così gliela faccio vedere io a quello/a là…”
“Quello/a è proprio uno/una str…”
“Per l’azienda siamo solo dei numeri…”
“Ecco il solito lecchino!”
“Il capo/il Cliente non capisce un c…”
In sintesi, chi è innocente scagli la prima pietra. Siamo tutti coinvolti, chi più chi meno, nel salto di qualità richiesto nel definire un nuovo paradigma manageriale orientato al rispetto delle persone e all’eccellenza nella gestione dei sistemi organizzativi e sociali.
Tuttavia, il cammino da fare è ancora lungo, il cambiamento di rotta non appare così facile da realizzarsi, almeno nel breve termine. Troppe secche incagliano ancora il veliero del progresso inteso come orientamento al bene comune e alla valorizzazione dei singoli.
Oggi le persone vengono “sputate fuori” dall’azienda senza troppi salamelecchi.
Per gli over 40 o 50 che subiscono l’espulsione rapida, il lavoro diventa un “game over”
Per quanto riguarda invece i “giovani”, un contrappasso dantesco della precarietà è quello che vede le aziende tentare di consolidare rapporti di lavoro contrassegnati da forte discontinuità. Come è possibile fidelizzare, motivare, coinvolgere un lavoratore a progetto, a tempo determinato e/o scarsamente remunerato? L’Italia è diventato un vero e proprio hard discount dei talenti, molti dei quali, vista la mal parata, fuggono giustamente all’Estero in cerca di miglior fortuna. “What Matter Most”, come dicono gli anglossassoni, “ciò che conta di più” altrove qui da noi è scarsamente considerato, ovvero il valore delle persone. Le ultime stime ci parlano di quasi tredici milioni di precari, moltissimi dei quali soffrono di quella che mi sento di definire “asemiopatia esistenziale”, vale a dire l’incapacità di trovare dei significati per i quali valga la pena lavorare e per certi aspetti anche di vivere. L’effetto ansiogeno generato
dalla percezione di inconsistenza del futuro è talmente invasivo da far perdere alle persone i riferimenti necessari, in termini di autostima e determinazione, per sostenere il sacrosanto diritto all’affermazione individuale e alla dignità personale.
In altre parole, l’attuale scenario in cui siamo immersi, l’epoca delle “risorse umane”, presenta pericolosi rischi di “regressione storica che porta i fantasmi dello sfruttamento, dell’alienazione, della schiavitù e del razzismo a tornare sulla terra come degli zombie.
Ad esempio, possiamo ravvisare elementi shakespeariani nelle tante tragedie delle morti sul lavoro, dalla teatralità dello scaricabarile delle responsabilità ai clamori – (brevissimi) – o ai silenzi (prolungati) dei media e delle Istituzioni riguardo le soluzioni da approntare per fare in modo che non crollino più tetti in testa agli studenti o che degli operai non muoiano carbonizzati in una fabbrica.
Gli esodi biblici degli immigrati continuano ancora, seppur con modalità diverse che in passato, riproponendo l’eterno dramma dell’uomo costretto a sradicarsi per reimpiantare le sue radici in una terra straniera, spesso ostile o indifferente.
Il livello di insoddisfazione generale, di insofferenza e di saturazione delle persone ha ormai raggiunto il livello di guardia e probabilmente lo ha anche oltrepassato.
Siamo effettivamente stanchi di sentirci chiamare “risorse umane” e soprattutto essere trattati come tali, da certi manager, politici ed accademici dell’organizzazione.
Le persone che hanno conquistato la loro posizione lavorativa grazie al loro merito e che sudano per mantenerla ogni giorno, ne hanno abbastanza delle caste di privilegiati – non solo politici – e dei raccomandati figli di papà, nipoti di zii e nonni che, guarda caso, arrivano sempre prima e nei posti migliori. In alcune organizzazioni, pubbliche o private ormai non fa più differenza, possiamo ricostruire interi alberi genealogici di parenti e affini, ben radicati e ramificati in ogni direzione.
Tuttavia, sono convinto che non saranno le parolacce dei V-Day o di certi “libri manageriali” a risolvere il problema, anzi. Gettare benzina emotiva sul fuoco della rabbia non aiuta certo a spegnere l’incendio della delusione e della frustrazione. Credo invece che riportare la discussione e le argomentazioni sul piano di una riflessione orientata al problem solving operativo, ci aiuti a crescere e a responsabilizzarci tutti in modo più consono alla nostra intelligenza di esseri umani, se vogliamo ancora considerarci tali!
In sintesi, il punto di svolta nel pensiero manageriale contemporaneo lo avremo nel momento in cui chi occupa posizioni di leadership crederà fermamente nei seguenti valori e li tradurrà nei propri comportamenti di ogni giorno:
● Le persone sono il fine di tutte le attività, non le risorse da sfruttare
● La libertà d’impresa deve sempre coniugarsi con le responsabilità, altrimenti diventa libertinaggio
● Il manager eccellente è colui o colei che mette in pratica le tre C del successo manageriale, Credibilità, Coerenza e Coraggio, facendosi ricordare nel tempo dai suoi collaboratori in modo positivo.
● La flessibilità deve essere remunerata economicamente in modo maggiorato rispetto ai livelli attuali.
● Ricordarsi sempre il principio manageriale fondamentale secondo il quale: “Più le persone sono soddisfatte più sono motivate a produrre e ad offrire il meglio di sé; più le persone sono precarie e trascurate più rendono precaria l’azienda dove operano, orientandola al fallimento”.
Cosa fare è chiaro, come farlo forse un po’ meno.
In ogni caso, può esserci utile una riflessione di Dan Zadra:
"Nessuno può tornare indietro e crearsi un nuovo inizio, ma tutti possiamo iniziare da qui e creare una nuova fine".E tutti ci auguriamo che sia una fine degna di una bella storia!

1 commento:

Anonimo ha detto...

Caro Dante,
ti ringrazio per aver apprezzato e segnalato il libro scritto col collega Stefano Greco! Ho trovato molto carine e intriganti le altre tue segnalazioni sul blog...

a presto!

Laura Pasquarelli