mercoledì 30 dicembre 2015

“IL FUTURO DEL WELFARE E’ IN AZIENDA” di Filippo Di Nardo

Partiamo dalla sua definizione, cosa vuol dire “Welfare aziendale?”. Sul dizionario “welfare” significa Benessere, ma anche Sussidi per la sanità, la previdenza e i servizi alla persona. Aziendale significa messo in atto dall’azienda, un investimento. In sintesi, si tratta di tutte le iniziative che un’azienda  pone in essere per favorire il benessere, la salute e la sussistenza dei propri lavoratori.
"Al fianco dei tradizionali bisogni sociali le politiche di welfare sono chiamate a rispondere a nuove e pressanti esigenze dei cittadini. I servizi alla persona sono uno dei capitoli crescenti e meno tutelati delle nuove politiche di welfare: servizi di baby sitting, lavori domestici, assistenza agli anziani e alle persone non autosufficienti. Questi bisogni sono in costante crescita soprattutto in ottica di conciliazione degli impegni di lavoro con gli impegni domestici e familiari e rappresentano una sfida per tutti i lavoratori europei , e più in particolare per le donne…Il welfare informale è la principale risposta ai servizi alla persona. Quasi 2 milioni e 600 mila famiglie si sono rivolte al mercato per acquistare servizi di collaborazione domestica, di assistenza agli anziani o a persone non autosufficienti e di baby-sitting. Prestazioni che sono garantite il più delle volte tramite lavoro irregolare e in nero. Il 27,7%, infatti, del lavoro domestico inteso in senso lato è "in nero" e il 38,8% appartiene alla cosiddetta area grigia, in altri termini quasi il 70% di questo settore è irregolare…"

Il welfare sarà sempre meno statale e sempre più aziendale. E' un processo obbligato, perché se le risorse pubbliche disponibili tendono a diminuire e le esigenze di welfare da parte dei cittadini tendono ad aumentare; è inevitabile che il welfare  contrattuale diventi sempre più complementare e, in alcuni casi, persino sostitutivo del sistema pubblico.
Nel libro vengono approfonditi ed illustrati modelli già applicati in altri Paesi e che potrebbero applicarsi anche nel nostro Paese. i capitoli a mio avviso più significativi in tal senso sono:
- il voucher universale per i servizi alla persona in Europa: un modello per l'Italia;
- Welfare aziendale: opportunità di tutela delle persone e di sviluppo delle comunità;
- Lo smart Working;
- Il Welfare come leva strategica per la produttività aziendale. L'esperienza di ValoreD.

Non solo un semplice libro, ma un vero vademecum dedicato alle grandi ma soprattutto alle piccole aziende, perché il “Welfare”, il “Benessere” non è una questione riservata alle aziende “grandi”; è soprattutto una questione culturale che alla base deve avere il desiderio da parte del datore di lavoro di applicarlo per il bene dei suoi dipendenti e della sua azienda… buona lettura.

“IL FUTURO DEL WELFARE E’ IN AZIENDA” (ed Guerini NEXT) 20,00 euro - Sono sempre più numerose le aziende che offrono benefit e servizi welfare ai propri dipendenti. La retribuzione del lavoro sta cambiando pelle e vicino al salario monetario sta crescendo il salario sociale, ossia la retribuzione in natura, più conveniente sul piano fiscale e contributivo. Si tratta del cosiddetto welfare aziendale che permette di remunerare i dipendenti con una serie di servizi alla persona e di sostegno al potere d’acquisto tramite l’offerta di servizi di assistenza per i propri famigliari, sia bambini sia anziani non autosufficienti, buoni spesa, buoni pasto, iniziative di conciliazione tra vita privata e lavoro, contributo per l’acquisto di libri per i propri figli, assicurazione sanitaria e via dicendo. Complice la lunga crisi economica di questi anni, molte aziende non sono più in grado di sostenere aumenti monetari per i propri dipendenti e grazie ai vantaggi fiscali del salario sociale ricorrono ai piani di welfare aziendale. Si tratta, si badi bene, di un sistema virtuoso che conviene a tutti: all’azienda che migliora la produttività, ai dipendenti che vedono aumentare il loro potere di acquisto e allo stato che può fare affidamento su una fonte di finanziamento aggiuntiva per le politiche sociali. Lo sviluppo e la centralità del welfare aziendale prende piede, infatti, all’interno della crisi di sostenibilità del nostro modello di stato sociale e dalla conseguente necessità di individuare nuove leve di finanziamento della spesa sociale in un’ottica integrativa rispetto al ruolo dello stato. Questo libro offre un contributo alla diffusione e sensibilizzazione a tutti i livelli, istituzionali, politici, sindacali e aziendali, dall’assoluta necessità di porre la questione del welfare aziendale al centro del confronto e dell’iniziativa di ciascuno, quale leva irrinunciabile di crescita e benessere per il ns Paese.


FILIPPO DI NARDO: è un giornalista specializzato sul mercato del lavoro e saggista. Direttore responsabile di “Kongnews.it” e già direttore responsabile del bimestrale “Human Training” ha collaborato con Italia oggi, Europa e Technopolis. E’ autore televisivo di di vari programmi sul lavoro, tra cui Eureka, format di Walter Passerini. Ha scritto numerosi saggi sul lavoro e l’impresa.

"Il Capitale Umano è fatto non solo di un patrimonio di competenze e abilità tecniche, ma anche di abilità non cognitive, come la motivazione o le attitudini verso il futuro e le condizioni di salute. Il capitale umano comprende tutto ciò che influenza la capacità degli individui di produrre e creare reddito, oltre alla forza delle loro braccia: la salute fisica e mentale ne è una determinante fondamentale" (Ignazio Visco)

giovedì 24 dicembre 2015

Mani tese - Natale 2015

Il simbolo del mio pensiero di Natale è racchiuso in questa immagine: due mani tese. Le due mani tese simboleggiano e comunicano due cose: la prima è una richiesta di aiuto, la seconda è l'aiuto che viene offerto. Spesso questi gesti, queste richieste non sono verbali, si ha vergogna, paura… In questi anni mi sono trovato a tendere la mano in cerca di aiuto più volte. Spesso lo sconforto ha preso il sopravvento facendomi camminare in un tunnel senza vedere la luce. Ci sono state persone che invece hanno teso la loro mano verso di me, spesso in silenzio, con discrezione, mi sono state di aiuto. Mi hanno aiutato a rialzarmi... Il mio pensiero oggi, in questi giorni di festività dove tutto viene enfatizzato, va a tutte quelle "mani tese in cerca di aiuto" che possano presto incontrare l'altra "mano tesa che aiuta" a superare i momenti di difficoltà che nella vita incontriamo. Un Grazie particolare a tutte quelle "mani tese" che sono pronte ad aiutare il prossimo in modo incondizionato… Questo il mio augurio e proposito per questo natale: Uniamo le mani…Sereno Natale a tutti...

sabato 12 settembre 2015

"LA RICREAZIONE E' FINITA" di Roger Abravanel e Luca D'Agnese

“Cosa vuoi fare da grande?”. Quante volte ci hanno posto questa domanda; quante volte l’abbiamo formulata noi. Una domanda come si diceva “da 1.000.000 di dollari”; alla quale fino a qualche anno fa si poteva dare una risposta, una strada da percorrere per il medio e lungo periodo.
Sono della generazione degli anni settanta, i quarantenni di oggi. Giovani orientati a intraprendere studi tecnici dove era importante prendere “il pezzo di carta”, essere pratici per trovare il “posto fisso” in una nazione in pieno boom economico. Competenze tecniche più importanti rispetto a quelle che oggi si definiscono “soft skills”; era importante relazionarsi con il territorio locale e la conoscenza delle lingue straniere (es l’inglese) era solo per i pochi che potevano permetterselo (o che avevano genitori di larghe vedute)
Oggi il mondo del lavoro è cambiato, il mondo stesso è oggi “più piccolo”, le distanze si sono accorciate grazie al fatto che gli spostamenti sono più brevi e meno costosi, ma soprattutto dal fatto che si è connessi in tempo reale con il mondo. La conoscenza dell’inglese, non è più complementare al percorso formativo; è un requisito fondamentale per relazionarsi ed essere competitivi in un mercato del lavoro globale.
Per rispondere alla domanda “Cosa vuoi fare da grande?” serve una collaborazione e comunicazione costante tra scuola, famiglia, giovani e mondo del lavoro; mondi che sono in continua evoluzione, trasformazione e innovazione.
Un libro, una riflessione che sarà sicuramente utile a chi opera nelle scuole, nel mondo del lavoro, ma soprattutto ai giovani ed alle loro famiglie.

Scheda
"LA RICREAZIONE E' FINITA" - La disoccupazione giovanile nel nostro Paese ha cause ben più profonde e lontane della crisi economica. Il problema è che i ragazzi italiani non sono preparati al lavoro del Ventunesimo secolo. E le famiglie, con i loro pregiudizi, stereotipi e luoghi comuni, sono spesso le prime fabbriche di disoccupati. Quello che i datori di lavoro cercano oggi nei giovani è molto diverso da ciò che volevano cinquant’anni fa: meno “mestiere” e più senso di responsabilità, spirito critico e capacità di comunicare con gli altri. Per questo i genitori non riescono a capirlo. E per questo la scuola e l’università, a parte poche eccezioni, non riescono a insegnarlo. Ma i giovani italiani e le loro famiglie non possono aspettare la riforma epocale di cui l’istruzione italiana avrebbe bisogno. Hanno domande alle quali è urgente dare una risposta. Quale percorso scolastico scegliere? Perché la laurea non basta più? Quali esperienze extrascolastiche sono più utili? Come trovare il lavoro giusto? Come si può correggere il tiro quando il percorso scelto non porta i risultati sperati? Roger Abravanel e Luca D’Agnese, attraverso l’analisi dei dati più significativi sull’istruzione e sull’occupazione, interviste a imprenditori e responsabili delle risorse umane e racconti in presa diretta di tanti ragazzi che “ce l’hanno fatta”, mostrano come questo sia possibile. Si deve provare da soli a costruire il percorso migliore per sé, perché disegnare il proprio futuro si può.

Autori:
Roger Abravanel: è consigliere di amministrazione di aziende italiane e internazionali. È autore di Meritocrazia (2008) e, con Luca D’Agnese, di Regole (2010) e Italia, cresci o esci (2012). – Luca D’Agnese: è stato partner di McKinsey e amministratore delegato di aziende del settore energetico. Attualmente è responsabile di Enel per l’America Latina


sabato 5 settembre 2015

"L'uomo bianco in quella foto" di Riccardo Gazzaniga

Quante volte abbiamo visto questa foto e ci siamo sempre soffermati sui pugni chiusi alzati, nessuno si è chiesto cosa pensasse "l'uomo bianco in quella foto"… Nemmeno io… Qualche giorno fa ascoltando a radio deejay la trasmissione "Tropicalpizza" ho ascoltato la storia attraverso le parole del giornalista Riccardo Gazzaniga. Da questa storia è stato tratto un film. Se vi ho incuriosito di seguito l'articolo e la sua storia. Buona lettura

L'UOMO BIANCO IN QUELLA FOTO
Le fotografie, a volte, ingannano.
Prendete questa immagine, per esempio. 
Racconta il gesto di ribellione di Tommie Smith e John Carlos il giorno della premiazione dei 200 metri alle Olimpiadi di Città del Messico e mi ha ingannato un sacco di volte.
L’ho sempre guardata concentrandomi sui due uomini neri scalzi, con il capo chino e il pugno guantato di nero verso il cielo, mentre suona l’inno americano. Un gesto simbolico fortissimo, per rivendicare la tutela dei diritti delle popolazioni afroamericane in un anno di tragedie come la morte di Martin Luther King e Bob Kennedy.
È la foto del gesto storico di due uomini di colore. Per questo non ho mai osservato troppo quell’uomo, bianco come me, immobile sul secondo gradino.

L’ho considerato una presenza casuale, una comparsa, una specie di intruso. Anzi, ho perfino creduto che quel tizio – doveva essere un inglese smorfioso – rappresentasse, nella sua glaciale immobilità, la volontà di resistenza al cambiamento che Smith e Carlos invocavano con il loro grido silenzioso.
Invece sono stato ingannato. 
Grazie a un vecchio articolo di Gianni Mura, oggi ho scoperto la verità: l’uomo bianco nella foto è, forse, l’eroe più grande emerso da quella notte del 1968.
Si chiamava Peter Norman, era australiano e arrivò alla finale dei 200 metri dopo aver corso un fantastico 20.22 in semifinale. Solo i due americani Tommie “The Jet” Smith e John Carlos avevano fatto meglio: 20.14 il primo e 20.12 il secondo.
La vittoria si sarebbe decisa tra loro due, Norman era uno sconosciuto cui giravano bene le cose. John Carlos, anni dopo, disse di essersi chiesto da dove fosse uscito quel piccoletto bianco. Un uomo di un metro settantotto che correva veloce come lui e Smith, che superavano entrambi il metro e novanta.
Arrivò la finale e l’outsider Peter Norman corse la gara della vita, migliorandosi ancora. Chiuse in 20.06, sua prestazione migliore di sempre e record australiano ancora oggi imbattuto, a 47 anni di distanza.
Ma quel record non bastò, perché Tommie Smith era davvero “The jet” e rispose con il record del mondo. Abbatté il muro dei venti secondi, primo uomo della storia, chiudendo in 19.82 e prendendosi l’oro.
John Carlos arrivò terzo di un soffio, dietro la sorpresa Norman, unico bianco in mezzo ai fuoriclasse di colore.
Fu una gara bellissima, insomma.
Eppure quella gara non sarà mai ricordata quanto la sua premiazione.

Non passò molto dalla fine della corsa perché si capisse che sarebbe successo qualcosa di forte, di inaudito, al momento di salire sul podio.
Smith e Carlos avevano deciso di portare davanti al mondo intero la loro battaglia per i diritti umani e la voce girava tra gli atleti.
Norman era un bianco e veniva dall’Australia, un paese che aveva leggi di apartheid dure quasi come quelle sudafricane. Anche in Australia c’erano tensioni e proteste di piazza a seguito delle pesanti restrizioni all’immigrazione non bianca e leggi discriminatorie verso gli aborigeni, tra cui le tremende adozioni forzate di bambini nativi a vantaggio di famiglie di bianchi. 
I due americani chiesero a Norman se lui credesse nei diritti umani.
Norman rispose di sì.
Gli chiesero se credeva in Dio e lui, che aveva un passato nell’esercito della salvezza, rispose ancora sì.
“Sapevamo che andavamo a fare qualcosa ben al di là di qualsiasi competizione sportiva e lui disse “sarò con voi” – ricorda John Carlos – Mi aspettavo di vedere paura negli occhi di Norman, invece ci vidi amore”. 
Smith e Carlos avevano deciso di salire sul podio portando al petto uno stemma del Progetto Olimpico per i Diritti Umani, un movimento di atleti solidali con le battaglie di uguaglianza.
Avrebbero ritirato le medaglie scalzi, a rappresentare la povertà degli uomini di colore. E avrebbero indossato i famosi guanti di pelle nera, simbolo delle lotte delle Pantere Nere.
Ma prima di andare sul podio si resero conto di avere un solo paio di guanti neri.
“Prendetene uno a testa” suggerì il corridore bianco e loro accettarono il consiglio.
Ma poi Norman fece qualcos’altro.
“Io credo in quello in cui credete voi. Avete uno di quelli anche per me?“ chiese indicando lo stemma del Progetto per i Diritti Umani sul petto degli altri due. “Così posso mostrare la mia solidarietà alla vostra causa”.
Smith ammise di essere rimasto stupito e aver pensato: “Ma che vuole questo bianco australiano? Ha vinto la sua medaglia d’argento, che se la prenda e basta!”.
Così gli rispose di no, anche perché non si sarebbe privato del suo stemma. Ma con loro c’era un canottiere americano bianco, Paul Hoffman, attivista del Progetto Olimpico per i Diritti Umani. Aveva ascoltato tutto e pensò che “se un australiano bianco voleva uno di quegli stemmi, per Dio, doveva averlo!”. Hoffman non esitò: “Gli diedi l’unico che avevo: il mio”.
I tre uscirono sul campo e salirono sul podio: il resto è passato alla storia, con la potenza di quella foto.
“Non ho visto cosa succedeva dietro di me – raccontò Norman – Ma ho capito che stava andando come avevano programmato quando una voce nella folla iniziò a cantare l’inno Americano, ma poi smise. Lo stadio divenne silenzioso”.
Il capo delegazione americano giurò che i suoi atleti avrebbero pagato per tutta la vita quel gesto che non c’entrava nulla con lo sport. Immediatamente Smith e Carlos furono esclusi dal team americano e cacciati dal villaggio olimpico, mentre il canottiere Hoffman veniva accusato pure lui di cospirazione.
Tornati a casa i due velocisti ebbero pesantissime ripercussioni e minacce di morte.
Ma il tempo, alla fine, ha dato loro ragione e sono diventati paladini della lotta per i diritti umani. Sono stati riabilitati, collaborando con il team americano di atletica e per loro è stata eretta una statua all’Università di San José.
In questa statua non c’è Peter Norman.
Quel posto vuoto sembra l’epitaffio di un eroe di cui nessuno si è mai accorto. Un atleta dimenticato, anzi, cancellato, prima di tutto dal suo paese, l’Australia.
Quattro anni dopo Messico 1968, in occasione delle Olimpiadi di Monaco, Norman non fu convocato nella squadra di velocisti australiani, pur avendo corso per ben 13 volte sotto il tempo di qualificazione dei 200 metri e per 5 sotto quello dei 100.
Per questa delusione, lasciò l’atletica agonistica, continuando a correre a livello amatoriale.
In patria, nell’Australia bianca che voleva resistere al cambiamento, fu trattato come un reietto, la famiglia screditata, il lavoro quasi impossibile da trovare. Fece l’insegnante di ginnastica, continuò le sua battaglie come sindacalista e lavorò saltuariamente in una macelleria. Un infortunio gli causò una grave cancrena e incorse in problemi di depressione e alcolismo.
Come disse John Carlos “Se a noi due ci presero a calci nel culo a turno, Peter affrontò un paese intero e soffrì da solo”.
Per anni Norman ebbe una sola possibilità di salvarsi: fu invitato a condannare il gesto dei suoi colleghi Tommie Smith e John Carlos, in cambio di un perdono da parte del sistema che lo aveva ostracizzato. Un perdono che gli avrebbe permesso di trovare un lavoro fisso tramite il comitato olimpico australiano ed essere parte dell’organizzazione delle Olimpiadi di Sidney 2000.
Ma lui non mollò e non condannò mai la scelta dei due americani.
Era il più grande sprinter australiano mai vissuto e detentore del record sui 200, eppure non ebbe neppure un invito alle Olimpiadi di Sidney. Fu il comitato olimpico americano, una volta scoperta la notizia a chiedergli di aggregarsi al proprio gruppo e a invitarlo alla festa di compleanno del campione Michael Johnson per cui Peter Norman era un modello e un eroe.
Norman morì improvvisamente per un attacco cardiaco nel 2006, senza che il suo paese lo avesse mai riabilitato.
Al funerale Tommie Smith e John Carlos, amici di Norman da quel lontano 1968, ne portarono la bara sulle spalle, salutandolo come un eroe.
“Peter è stato un soldato solitario. Ha scelto consapevolmente di fare da agnello sacrificale nel nome dei diritti umani. Non c’è nessuno più di lui che l’Australia dovrebbe onorare, riconoscere e apprezzare” disse John Carlos.
“Ha pagato il prezzo della sua scelta – spiegò Tommie Smith – Non è stato semplicemente un gesto per aiutare noi due, è stata una SUA battaglia. È stato un uomo bianco, un uomo bianco australiano tra due uomini di colore, in piedi nel momento della vittoria, tutti nel nome della stessa cosa”.
Solo nel 2012 il Parlamento Australiano ha approvato una tardiva dichiarazione per scusarsi con Peter Norman e riabilitarlo alla storia con queste parole: 
“Questo Parlamento riconosce lo straordinario risultato atletico di Peter Norman che vinse la medaglia d’argento nei 200 metri a Città del Messico, in un tempo di 20.06, ancora oggi record australiano.
Riconosce il coraggio di Peter Norman nell’indossare il simbolo del Progetto OIimpico per i Diritti umani sul podio, in solidarietà con Tommie Smith e John Carlos, che fecero il saluto del “potere nero”.
Si scusa tardivamente con Peter Norman per l’errore commesso non mandandolo alle Olimpiadi del 1972 di Monaco, nonostante si fosse ripetutamente qualificato e riconosce il potentissimo ruolo che Peter Norman giocò nel perseguire l’uguaglianza razziale”.
Ma, forse, le parole che ricordano meglio di tutti Peter Norman sono quelle semplici eppure definitive con cui lui stesso spiegò le ragioni del suo gesto, in occasione del film documentario “Salute”, girato dal nipote Matt.
“Non vedevo il perché un uomo nero non potesse bere la stessa acqua da una fontana, prendere lo stesso pullman o andare alla stessa scuola di un uomo bianco.
Era un’ingiustizia sociale per la qualche nulla potevo fare da dove ero, ma certamente io la detestavo.
È stato detto che condividere il mio argento con tutto quello che accadde quella notte alla premiazione abbia oscurato la mia performance.
Invece è il contrario.
Lo devo confessare: io sono stato piuttosto fiero di farne parte”.

(Riccardo Gazzaniga)

martedì 14 luglio 2015

"Quando siete felici fateci caso" di Kurt Vonnegut

"Quando siete felici fateci caso". E' questo il titolo del libro di Kurt Vonnegut che mi è stato consigliato dall'amica Silvia. 
Io aggiungo: "Quando siete felici e appagati dite GRAZIE!", "Quando avete bisogno di AIUTO chiedetelo, non vergognatevi!". Tre affermazioni che spesso sono una conseguenza. Tre affermazioni che negli ultimi anni hanno fatto parte della mia vita…
Spesso la vita è difficile e ci mette di fronte a sfide difficili da affrontare; ma quando siamo riusciti a "superare la sfida" è giusto fermarsi, ringraziare chi ci ha supportato (e alcune volte sopportato), e soprattutto essere Felici.
Un libro ricco di aneddoti, riflessioni, storie ed esperienze che posso essere sicuramente per noi lettori esperienze e spunti di riflessioni. Riflessioni datate ma sempre molto attuali.
Discorsi che erano indirizzati agli studenti di College Universitari che il giornalista Dan Wakefield e la traduttrice Martina Testa hanno messo a disposizione di tutti noi…"Quando siamo felici facciamoci caso"… Buona lettura

Scheda del libro
"QUANDO SIETE FELICI, FATECI CASO"Nelle università americane il commencement speech è il discorso ufficiale tenuto al termine dell’anno accademico ai laureandi da una personalità di spicco del mondo della cultura o della politica. Negli ultimi anni, i discorsi agli studenti di scrittori come David Foster Wallace (Questa è l’acqua) e George Saunders (L’egoismo è inutile) sono diventati grazie al passaparola dei veri e propri oggetti di culto, per gli studenti e non solo. Questo volume raccoglie nove discorsi tenuti da Kurt Vonnegut fra il 1978 e il 2004, e si propone come una piccola summa del pensiero di un maestro geniale e irriverente della letteratura del Novecento. Fra aforismi, ricordi, aneddoti, riflessioni, i discorsi di Vonnegut brillano dello stesso spirito vivace e anticonformista che anima la sua narrativa; mai predicatorio, mai consolatorio, ma capace di sferrare attacchi frontali allo status quo, cantare inni alla libertà e alla creatività dell’essere umano, spiazzare e divertire con il suo humour dissacrante, Kurt Vonnegut ci parla ancora, a qualche anno dalla morte, con una voce modernissima e utile a leggere il mondo in maniera critica e potenzialmente rivoluzionaria.
«Quanti di voi hanno avuto un insegnante, in qualunque grado di istruzione, che vi ha resi più entusiasti di essere al mondo, più fieri di essere al mondo, di quanto credevate possibile fino a quel momento? 
Alzate le mani, per favore.
Adesso riabbassatele e dite il nome di quell’insegnante a un vostro vicino, e spiegategli che cosa ha fatto per voi.
Ci siamo?
Cosa c’è di più bello di questo?» 

L'autore
Kurt Vonnegut - (Indianapolis, 1922 - New York, 2007) nacque in una famiglia colpita dalla Grande Depressione del ’29. Nel 1940 si iscrisse a biochimica all’università, poi andò sotto le armi e da prigioniero dei tedeschi assisté al bombardamento di Dresda. Tornato in America, ha studiato antropologia e ha fatto vari lavori fra cui il cronista, nello stato di New York. Esordisce come scrittore nel 1950 e pubblica il suo primo romanzo, Piano meccanico, nel 1952. Membro dell’American Academy and Institute of Arts and Letters, è considerato uno dei massimi scrittori di fantascienza e uno dei maggiori autori americani. Con Feltrinelli ha pubblicato: Mattatoio n. 5 (2003), da cui è stato tratto il film di Roy Hill nel 1972, Ghiaccio-nove (2003), Un pezzo da galera (2004), Piano meccanico (2004), Dio la benedica, Mr. Rosewater (2005), La colazione dei campioni (2005), Le sirene di Titano (2006), Madre notte (2007), Barbablù (2007), Ricordando l’Apocalisse (2008), Guarda l’uccellino. Racconti inediti (2012), e, nella collana digitale Zoom, Da tutte le strade si alzeranno lamenti (2012).

"Fai fiorire il cielo" di Jacopo Perfetti

Quando qualche mese fa mi aggiravo per la libreria mi sono imbattuto in questo libro; subito il titolo e la copertina hanno attirato la mia curiosità; in un periodo personale e sociale buio,  c'è bisogno di chi, attraverso anche "solo" con un libro, un pensiero riesce ad ispirarci.
E' proprio  dietro la parola "ispirazione" il segreto per uscire dal tunnel della "crisi", dal fango dell'immobilità sociale ed economica.
Ma qual è il significato di questa parola? Secondo il dizionario "Ispirazione = illuminazione divina che apre la mente dell'uomo alla verità e lo guida a ben operare". 
Quindi l'ispirazione guida l'uomo ad operare verso il futuro, ma spesso e guai se non fosse così, è frutto anche e soprattutto di esperienze del passato. E questo libro è il giusto "collante": dando uno sguardo alle esperienze del passato in vari campi (economia, musica, marketing, ecc.) troviamo l'ispirazione per guardare al futuro con occhi nuovi, trovare il coraggio di guardare nuovamente avanti, guardare in alto, facendo finalmente "fiorire il cielo del nostro futuro"… Buona lettura

Scheda del libro
FAI FIORIRE IL CIELO. Storie, strategie e intuizioni per sviluppare idee straordinarie che cambiano il futuro (ed S&K)Qual è il segreto di "X-Factor" che ha rivoluzionato il rapporto tra musica e pubblico? Perché i personaggi di "Guerre stellari" sono diventati icone senza tempo? Come è riuscita Airbnb, azienda simbolo della sharing economy, a superare in pochi anni molti degli storici gruppi del settore alberghiero? Sono tutte idee originali, che hanno cambiato schemi e logiche del passato riuscendo a toccare il cuore delle persone. Il vero segreto è che per sviluppare idee in grado di cambiare il futuro non si passa solo per matrici e piani industriali ma anche per ispirazioni che vengono dall'arte, dalla filosofia, dalla musica, dal cinema, dalla storia e, più in generale, dalla cultura. Forse anche tu hai un'idea che potrebbe rivelarsi straordinaria. Ma non sai come realizzarla. In questo saggio Jacopo Perfetti ci accompagna in un percorso geniale per sviluppare un'idea di successo in sei fasi. Dalla sua essenza, l'essere basato su una storia vera (la barca), alla creazione del giusto contesto dove farla crescere (il mare e le onde), alle persone per valorizzarla (il vento) e alle risorse per svilupparla (l'acqua e gli scogli), per poi confrontarsi con l'ambiente esterno (il porto) ed essere infine pronti per andare oltre e far fiorire il cielo (le stelle). Dalla Rivoluzione Francese del 1789 a quella Haitiana del 1791. Dal marketing all'arte. Da Kotler e Godin a Banksy e Picasso. Da James Bond e Batman a Francis Ford Coppola e Buster Keaton passando per le storie vere della RedBull e della Coca-Cola, dalla musica rock di Bob Dylan e Bruce Springsteen a quella punk dei Sex Pistols e dei Motörhead.

L'autore
JACOPO PERFETTI -milanese, laurea umanistica e MBA. Crede nella meraviglia delle idee, si diverte a lanciare iniziative imprenditoriali e collabora con SDA Bocconi School of Management. Nell'ambito del marketing e della comunicazione, ha lavorato come consulente creativo per alcuni tra i principali marchi italiani. Cura, ricerca e produce artisti, cataloghi d'arte e progetti culturali con il fine di portare l'arte a tutti perché tutti hanno il diritto di viverla. Fai Fiorire il Cielo, già tradotto all'estero, è il suo primo libro.

venerdì 8 maggio 2015

Calma...

"La Calma è la virtù dei forti?… No la Calma è la virtù di chi non ha un'alternativa…" 
(Dante D'Alfonso)

domenica 3 maggio 2015

"FLESSIBILITA' vs PRECARIETA' " di Francesco Rotondi e Filippo di Nardo

Il tema del lavoro è da sempre un "tema caldo" nel nostro Paese, negli ultimi anni, complice la crisi, ancora di più. C'è da qualche anno una difficoltà che coinvolge sia il mondo delle imprese sia quello dei lavoratori; ma c'è anche un uso improprio (in alcuni casi illegale) di alcuni contratti di collaborazione professionale, ma soprattutto in generale c'è molta confusione sulle varie tipologie contrattuali: mansioni, retribuzioni ed orari di lavoro.
Francesco Rotondi e Filippo Di Nardo nel loro libro "FLESSIBILITA' vs PRECARIETA' " provano a fare chiarezza proprio su queste due definizioni, usate nel tempo, in modo errato, come "sinonimi".

"… Su Wikipedia il concetto di FLESSIBILITA' è spiegato in questo modo: "la flessibilità si riferisce alla situazione in cui il lavoratore muta più volte il datore di lavoro". Se pensiamo che dietro questo concetto ci sia in realtà l'idea che il frequente cambiamento di datore di lavoro nell'arco della vita professionale si porti dietro una prospettiva di miglioramento delle competenze, di miglioramento retributivo e di miglioramento dello status sociale, sarà difficile attribuirgli un significato di precarietà.
E' altresì ovvio che il principio di flessibilità rischia di degenerare nella precarietà quando manca la continuità nella vita professionale e soprattutto quando viene a mancare un reddito adeguato alla pianificazione della propria vita. Così intesa rappresenta una degenerazione  del concetto di flessibilità, una sorta di deviazione  dal "principio sano". In questo senso, la flessibilità non va demonizzata, ma va regolamentata nella sua fase di criticità. Ossia la fase di "uscita".
Ma cosa si intende per PRECARIETA' ? Partiamo, anche in questo caso, dalla definizione di Wikipedia: "E' definita come caratteristica e condizione di ciò che è precario, instabile, incerto". Abbiamo centrato il tema e la differenza tra i due concetti. FLESSIBILITA' e PRECARIETA' sono decisamente concetti diversi. La precarietà se la guardiamo da un punto di vista oggettivo è lo status di chi non ha un altro soggetto che gli garantisca qualcosa. Se lo guardiamo da un punto di vista soggettivo è una condizione molto vicina al timore, alla paura dell'ignoto, all'incubo dell'incertezza.
La distinzione tra flessibilità e precarietà, quindi è fondamentale per capire di cosa stiamo parlando in tema di nuovo mercato del lavoro, mentre persiste tutt'ora una pericolosa e infruttuosa sovrapposizione tra i due concetti. Credo sinceramente che pochi lavoratori possano tranquillamente ritenersi "non precari" per il solo fatto di avere un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. La flessibilità e la precarietà riguardano TUTTI e prescinde dalla condizione contrattuale. Per curare il male, ossia la precarietà, non bisogna far morire il paziente, ossia la flessibilità. Il male non è la flessibilità, di per se positiva e comunque condizione necessaria degli assetti produttivi dei nostri tempi, ma la sua degenerazione in forma di precarietà… Il punto è costituire un moderno sistema di tutela per renderla sostenibile socialmente… (cit pag 16)"

Quando si parla di Flessibiltà il pensiero va (erroneamente) solo al mondo dell'impresa che cerca la flessibilità della forza lavoro per gestire al meglio sia i periodi di picchi lavorativi che quelli di crisi dove invece c'è bisogno (giustamente) di razionalizzare ed ottimizzare i costi. Ma la Flessibilità può e deve essere desiderata anche dal lavoratore che magari vuole fare nuove esperienze professionali, migliorare la propria posizione lavorativa e retributiva, reinventarsi in nuovo mestiere; soprattutto oggi che il mercato del lavoro richiede nuove figure professionali e nuovi modelli organizzativi. Fin qui tutto logico, bello e sicuramente troppo teorico…
La realtà è un'altra. Oggi, un lavoratore che vuole essere flessibile deve investire e "rischiare" tutto da solo. Non esistono politiche sociali e lavorative attive che diano supporto (organizzativo ed economico) al lavoratore; vediamole nello specifico.
Un lavoratore (attivo) che vuole essere "flessibile" deve attuare una vera "strategia professionale" che si compone di:
- analisi e bilancio delle proprie competenze
- individuare la nuova area di interesse professionale
- sostenere corsi di formazione per acquisire nuove competenze tecniche
- scrivere il nuovo C.V.
- cercare un nuovo impiego
Non esiste oggi, una struttura pubblica o convenzionata che supporti il "lavoratore flessibile" in questo percorso. Bisogna rivolgersi a strutture aziendali/consulenti che professionalmente svolgono questo mestiere ed aiutano il lavoratore in questo percorso lungo e impegnativo sia dal punto di vista psicologico ed economico perché il tutto è pagato solo ed esclusivamente dal lavoratore che se non può permetterselo è costretto a restare in un angolo, in balia della sorte, senza avere la possibilità di gestire il proprio percorso professionale.
Mi auguro che la seconda fase del "Jobs act" prenda in esame i punti che ho esposto in modo da trasformarci tutti da lavoratori "passivi" a lavoratori "attivi e flessibili" come avviene oggi in altri Paesi.

Scheda del libro
"FLESSIBILITA' vs PRECARIETA' " - Il Jobs Act du Matteo Renzi da che parte sta? (2015 ed. Rubettino) - La confusione regna sovrana quando si parla di LAVORO. Prevale la propaganda a scapito della ragionevolezza e della comprensione dei reali processi in atto nell'economia e nei modelli di organizzazione del lavoro. In questo caos mediatico posizioni largamente minoritarie nel Paese trovano terreno fertile per affermarsi come idee prevalenti. E' passato il messaggio "sbagliato", ossia l'equiparazione di due concetti profondamente distinti ma rappresentati, soprattutto nel "circo mediatico", come sinonimi e intercambiabili: parliamo di flessibilità e precarietà. Qualsiasi rapporto o contratto di lavoro atempo è identificato con l'aggettivo "precario" senza nessun distinguo. Non esiste più il concetto di flessibilità ma solo quello di precarietà che l'ha fagocitato e metabolizzato. La realtà però è un'altra. Flessibilità e precarietà non sono sinonimi ma concetti contrapposti. La flessibilità è positiva ed è distinta dalla precarietà. Questo libro spiega perché, con l'ambizione di riaffermare le giuste differenze.

Gli autori
FRANCESCO ROTONDI - Avvocato, giuslavorista, docente di diritto del lavoro è socio fondatore di LABLAW Studio Legale. La sua esperienza si focalizza nel settore del diritto del lavoro, nelle RELAZIONI industriali e nelle relative controversie. Artefice dell'implementazione del lavoro interinale in Italia, assiste alcune delle più importanti multinazionali presenti nel nostro Paese.

FILIPPO DI NARDO - giornalista specializzato sui temi del lavoro. Direttore responsabile di KONGnews.it e già direttore responsabile del bimestrale human Training, ha collaborato con Italia Oggi, Europa e Technopolis. Autore televisivo di Eureka, formar di Walter Passerini, in onda su Telelombardia e realizzato in collaborazione con La Stampa, ha scritto numerosi saggi sul lavoro tra cui per Rubettino: "McJob. Il LAVORO DA McDonald's Italia e Networkers".

domenica 26 aprile 2015

Il Valore dell'equipaggio

"La barca che vince ha lo stesso vento delle altre, ma ha un equipaggio migliore
(fonte sconosciuta)

giovedì 26 marzo 2015

"Sogni e Progetti" di Luca Parmitano

tratto dall'intervista a Luca Parmitano (Millionaire marzo 2015)

D:Qual è il giusto rapporto da avere con i sogni?
R: "Bisogna sempre averne. Il sogno vero deve essere lontanissimo, quasi irraggiungibile. E' una luce che ti guida nella vita".
D: E con i progetti?
R: "I progetti sono i sogni alla nostra portata. Vanno costruiti e perseguiti nel quotidiano, un passo dopo l'altro. Valgono sempre e possono avere un orizzonte temporale anche a 5 e 10 anni. Si alimentano, specie quando si tratta di progetti difficili, con l'energia, la carica e la motivazione che ci derivano dai sogni…"

Chi è Luca Parmitano: è Maggiore pilota dell'Aeronautica Militare e Astronauta. Ha accumulato più di 2000 ore di volo, si è qualificato su oltre 20 tipi fra aerei ed elicotteri militari. E' stato il sesto astronauta italiano, il quarto ad abitare la stazione spaziale internazionale, il primo italiano impegnato in attività extraveicolari. Ha trascorso 166 giorni nello spazio ed è stato ambasciatore del Semestre italiano alla UE.