C’era una volta,
Un giovane manager che aveva iniziato la sua avventura
professionale come operatore in una multinazionale,
rispondendo come si faceva una volta ad un annuncio sul giornale, e avviandosi
così al mondo del lavoro facendo la cosiddetta gavetta. Era stato scelto per le
sue doti: umiltà, passione e dedizione per ciò che faceva, spirito di squadra
ed entusiasmo. Doti che in pochi mesi gli fecero avere la promozione al ruolo
di “manager” e team leader.
Amava le letture che lo ispiravano e le storie di grandi
imprenditori e manager. Proprio la lettura di un libro sul fondatore della
“sua” azienda lo aveva fatto appassionare ancora di più.
I giorni ed i mesi passavano ed i compiti che gli venivano
assegnati aumentavano sempre più e lui ne era soddisfatto. Pensava che più si
dava da fare e più veniva considerato ed apprezzato; più tempo passava in
azienda e più veniva notato dai suoi superiori; e così il giovane manager si
concentrava sempre più sugli aspetti tecnici del suo lavoro, trascurando quelli
relazionali con i propri collaboratori, proprio quegli aspetti che lo avevano
fatto entrare in azienda facendogli guadagnare la promozione.
All’azienda “multinazionale” tutto questo andava bene, perché il giovane manager passava tante ore
in azienda e portava i risultati economici ed operativi che si aspettavano.
Tutta questa dedizione, dopo alcuni anni si tradusse in una nuova promozione,
questa volta a direttore di punto vendita, un nuovo punto vendita, dove tutto
era da organizzare… a partire dalle persone.
Era diventato un manager dei numeri dove la sua Bibbia era il "conto
economico" e dove l’incidenza percentuale aveva una certa importanza. Applicava
uno stile “direttivo”. Amava accentrare a se tutte le decisioni, per spirito di
carità organizzava riunioni con i
collaboratori, per ascoltare i loro
pareri, ma non riusciva a delegare alcuna responsabilità. I risultati operativi
ed economici però gli davano ragione ed oggettivamente vennero riconosciute le
sue capacità organizzative e competenze tecniche sia dalla direzione generale
che da alcuni “cacciatori di teste” che gli proposero una nuova avventura
professionale.
Il “giovane manager” affrontò questa nuova opportunità
forte della sua esperienza ed orgoglioso per quello che era stato capace di
costruire “da solo”. Pensò di dover gestire le stesse dinamiche organizzative e
che quindi la strada sarebbe stata in “discesa”… Mantenne con il suo nuovo team
lo stesso stile direttivo che comunque in passato gli aveva fatto raggiungere
ottimi risultati. “Se una cosa funziona perché cambiarla!” pensò. Questa volta però le cose erano in
realtà diverse: si trovava di fronte ad un team consolidato, che lavorava da
tanti anni insieme e si relazionava in modo nuovo per lui, si
C O N F R O N T A V A N O… ma lui alla fine decideva, senza condividere le sue
scelte, “pretendeva in quanto capo l’ultima parola”.
Ma la “magia” era finita. Forse non era magia, era solo
illusione… Il team non lo seguiva, anzi quasi lo evitava e le persone facevano
paragoni con altri manager che lo avevano preceduto. Organizzava anche qui
delle riunioni: collettive ed individuali, che sembravano però più dei
monologhi. E proprio in un colloquio individuale con una sua collaboratrice
successe una cosa che lo cambiò in modo radicale.
Con questa collaboratrice c’erano spesso divergenze di
opinione e di visione: il giovane manager era un tipo “quadrato” e per lui le
cose erano bianche o nere e non c’era nessuna sfumatura, nessun colore; la
collaboratrice no, era un’artista (pittrice) ed il suo pensiero spaziava a 360
gradi. Svolgeva quel lavoro non per “vocazione” ma perché le serviva per vivere.
Cosa doveva sentire il giovane manager! Proprio lui che nel lavoro vedeva
soprattutto la realizzazione personale e professionale.
Ma nonostante la collaboratrice lavorasse “solo per
mantenersi”, lavorava in modo scrupoloso
ed attento, interessandosi soprattutto al benessere del team.
“Ciao,
come stai? Come va il lavoro?” esordì il giovane manager da dietro la sua
scrivania, in una saletta asettica adibita per questo genere di colloqui.
“Perché
ti interessa saperlo?” fu la pronta risposta della collaboratrice, che non
vedeva l’ora di vomitargli addosso tutto quello che si teneva dentro in quel
periodo.
“Non
ti fidi di nessuno, te ne stai lì a fare il professorino, a dare ordini senza
considerarci per niente e sappi che questo atteggiamento da superman non piace
a nessuno!”
Il
giovane manager, spiazzato da una simile reazione si mise subito sulla
difensiva. Ma come, proprio lui che leggeva di management, di leadership,
veniva accusato di essere un accentratore? Come si permetteva questa ragazza?
Solo perché lavorava da tanti anni, chi gli dava il diritto di criticarlo così
duramente? Proprio non era in grado di capirlo…
Turbato da questo colloquio, tornò a casa e nel silenzio
della notte iniziò a ripensare alla sua storia di qualche anno prima: era stato
un allenatore di basket e quello che amava di più era creare e gestire un team
affiatato, appassionarlo al gioco; perché solo con la passione si possono
affrontare le sfide; voleva essere un punto di riferimento per quei ragazzi che
si affidavano a lui, e solo per ultimo gli interessava l’aspetto tecnico. Era
solare ed amava trasferire al prossimo il suo entusiasmo, la sua passione e la
sua gioia per la vita.
Cosa
gli era successo? In chi o cosa si era trasformato, in quei pochi anni? Cosa
voleva diventare? Una cosa era certa, non era quella la strada da percorrere,
ma nonostante tutte queste domande non riusciva a trovare alcuna risposta.
Mentre
girovagava per casa nella penombra, passò davanti alla sua libreria dove
conservava i libri che più lo avevano interessato ed ispirato in quegli anni.
Ne prese uno, lo aprì dove c’era un segnalibro e lesse un passaggio
sottolineato “Non è importante ciò che fai per vivere…semmai ciò che fai per
sentirti vivo”.
E
lui stava vivendo? Si reputava un sognatore e spesso passava ore ad osservare
dal faro del porto il mare infinito, soprattutto in inverno, quando la brezza
pungeva sul viso.
Lui
stesso ed i suoi sogni con il passare degli anni erano prigionieri delle
dinamiche economiche, tipiche delle multinazionali, che gli avevano fatto
perdere di vista il suo vero obiettivo: lavorare divertendosi con i propri
colleghi, raggiungendo INSIEME gli obiettivi aziendali.
Leggendo
quella frase e ripensando a tutte queste cose, si mise a letto e pianse lacrime
liberatorie.
Una ragazza, una collaboratrice, quella che non stimava più
di tanto perché “non devota al dio lavoro” gli aveva fatto riaprire gli occhi
ed il cuore. Il giorno successivo la incontrò nei corridoi verdi dell’azienda,
non sapeva cosa dire, le sorrise e le disse semplicemente “GRAZIE”.
Il suo stile cambiò, se ne accorsero tutti, e l’ormai non
più tanto giovane manager, tornò ad essere questa volta un allenatore di
Persone.