giovedì 30 agosto 2012
La storia di Ludwig Guttmann, il medico che curò i paraplegici con lo sport olimpico
tratto da newsletter Ufficio Disabili del Comune di Montesilvano (Pe) - www.ufficiodisabili.it
La storia di Ludwig Guttmann, il medico che curò i paraplegici con lo sport olimpico
La storia di Ludwig Guttmann, il medico che curò i paraplegici con lo sport olimpico
Sei un soldato del D-Day con la spina dorsale recisa dalla scheggia di un proiettile, o una donna con la schiena spezzata in una via distrutta da un missile V2. In preparazione dell’apertura del secondo fronte il tuo paese ha già preso in considerazione feriti gravi come te. Nel febbraio 1944 nello Stoke Mandeville Hospital situato tra Londra e Oxford è stato aperto un reparto per curare la colonna vertebrale. Tu, il paziente, arrivi e in base al procedimento standard tipico nei casi di ferite alla spina dorsale vieni rinchiuso in uno stampo di gesso che ti immobilizza tutto il corpo in una specie di sarcofago pieno di sabbia per minimizzare le scosse dell’aeroplano e dell’ambulanza. Essendo pesantemente sedato da massicce dosi di morfina – come tutti quelli considerati casi senza speranza – probabilmente immagini che quel che sta per seguire sia un sogno, anzi un incubo. Infatti un ometto im petuoso con occhiali senza montatura, baffetti e in viso due cicatrici da sciabola ricevute in duello, con un pesante accento gutturale tedesco urla arrabbiato alle infermiere che ti accompagnano, di non portargli mai più un paziente “come in una bara” o in uno stampo di gesso che racchiude tutto il corpo. “Producono piaghe che si infetteranno e alla fine uccideranno il paziente se non nell’arco di settimane, di certo entro qualche mese”.
Morte nello spazio di mesi di setticemia o infezioni alle vie urinarie, dovute appunto a mancanza di movimento era allora in tutto il mondo la prognosi convenzionale per i pazienti paraplegici. Questo prima del dottor Ludwig Guttmann. Avendo visto tantissimi morire in questo modo quando era attendente medico nell’esercito tedesco durante la Prima guerra mondiale stava combattendo una guerra personale per far sì che questa percentuale dell’80 per cento di mortalità non si ripetesse nella Seconda guerra mondiale. E soprattutto non per gli inglesi.
Il generale Ian Jacob, segretario militare di Churchill e suo confidente, a chi gli chiedeva perché avessero vinto la guerra i britannici e non i tedeschi rispondeva: “Perché i nostri tedeschi erano migliori dei loro tedeschi. Parlava di uomini come Guttmann, uno dei più importanti neurologi tedeschi, a cui fin dal 1933 era stato proibito di praticare la medicina sugli ariani e che come molta parte dell’élite intellettuale tedesca era riuscito a scappare all’estero sotto l’incalzare delle SS. Guttmann fuggì a Oxford nel 1939 mentre Maynard Keynes aveva formato un comitato per sostenere finanziariamente e impiegare i 3.000 tedeschi ebrei che si erano rifugiati a Cambridge in quello stesso anno. Quelli che non riuscirono a scappare – come il resto della famiglia Guttmann – morirono nei campi di concentramento.
Ora l’illustre e rivoluzionario tedesco combatteva dall’altro lato, ma il nemico era lo stesso: l’oscurantismo medico. O, per dirla con le parole di Guttmann, “il pregiudizio indottrinato” rispetto alla cura, anzi addirittura rispetto alla possibilità di una qualche cura per paraplegici e tetraplegici. Questi infatti erano considerati storpi incurabili da aiutare in modo umano verso la morte a cui inevitabilmente andavano incontro in pochi mesi. Cosa che per Guttmann altro non era se non “disfattismo”. E moltissimi pazienti arrivavano a Stoke Mandeville già rassegnati alla stessa disperata prognosi.
Il generale Ian Jacob, segretario militare di Churchill e suo confidente, a chi gli chiedeva perché avessero vinto la guerra i britannici e non i tedeschi rispondeva: “Perché i nostri tedeschi erano migliori dei loro tedeschi. Parlava di uomini come Guttmann, uno dei più importanti neurologi tedeschi, a cui fin dal 1933 era stato proibito di praticare la medicina sugli ariani e che come molta parte dell’élite intellettuale tedesca era riuscito a scappare all’estero sotto l’incalzare delle SS. Guttmann fuggì a Oxford nel 1939 mentre Maynard Keynes aveva formato un comitato per sostenere finanziariamente e impiegare i 3.000 tedeschi ebrei che si erano rifugiati a Cambridge in quello stesso anno. Quelli che non riuscirono a scappare – come il resto della famiglia Guttmann – morirono nei campi di concentramento.
Ora l’illustre e rivoluzionario tedesco combatteva dall’altro lato, ma il nemico era lo stesso: l’oscurantismo medico. O, per dirla con le parole di Guttmann, “il pregiudizio indottrinato” rispetto alla cura, anzi addirittura rispetto alla possibilità di una qualche cura per paraplegici e tetraplegici. Questi infatti erano considerati storpi incurabili da aiutare in modo umano verso la morte a cui inevitabilmente andavano incontro in pochi mesi. Cosa che per Guttmann altro non era se non “disfattismo”. E moltissimi pazienti arrivavano a Stoke Mandeville già rassegnati alla stessa disperata prognosi.
“Papà” Guttmann, come pazienti e assistenti lo chiamavano, procedeva egli stesso al taglio dell’armatura di gesso, proibiva la morfina, rivoltava i pazienti ogni due ore di giorno e di notte per evitare le piaghe da decubito e, usando l’esperienza acquisita in fatto di burocrazia di guerra come direttore di un ospedale con 3.000 posti letto all’età di soli 28 anni, si dava da fare nel reclutare personale, che poi doveva convincere del fatto che quello non era lavoro da obitorio. Domandò e ottenne, in un momento di pesanti perdite sui campi di battaglia in Francia e Italia, fisioterapisti specializzati in riabilitazione e riqualificazione professionale e un sergente esperto di educazione fisica per far da istruttore di ginnastica per la parte superiore del corpo. Guttmann dichiarò che il suo ultimo scopo pratico era rendere i suoi pazienti dei contribuenti – membri della so cietà attivi e sicuri di sé. “Il lavoro rende liberi”, soprattutto in una società libera.
Un soldato paraplegico, ex pugile, si lamentò: “Non c’è tempo per essere ammalati in questo dannato ospedale!”. Prima che un paziente potesse andarsene dal reparto di Fisioterapia di Guttmann doveva essere in grado di vestirsi da solo in pochi minuti, di mantenere la posizione eretta senza sostegno artificiale di nessun genere, di salire e scendere dal letto senza aiuto, di camminare sulle stampelle, poter nuotare e di essersi trasformato in uno sportivo paraplegico completo, in altre parole, curato nello spirito come nel corpo. Addirittura, secondo un paraplegico del D-Day, il cappellano militare Albert Bull, “una delle occupazioni principali di un paziente dello Spinal Centre era tirar su di morale i visitatori; egli stesso ebbe vita lunga e morì a 85 anni, nel 1995. Tutti i pazienti dovevano dedicarsi alla terapia occupazionale e il dottor Guttmann controllava settimanalmente il loro prog resso nei mestieri di falegname, calzolaio, orologiaio, progettista, ingegnere e nell’apprendimento a distanza di ragioneria, tecnica bancaria, arte e legge. Un giorno il dottor Guttmann chiese a un paziente appena arrivato che cosa stesse facendo. “Aspetto che il buon Dio venga a prendermi per portarmi con sé”, fu la risposta. “Bene, e mentre aspetti puoi fare un po’ di lavoro!”, ribattè il medico.
Guttman organizzava pure il tempo libero con incontri al pub The Bell, dove ognuno arrivava spingendo la propria carrozzella, oltre a una visita concordata con le famose Windmill Girls, un gruppo di burlesque ottimo per tirar su il morale. Addirittura Margot Fonteyn portò il corpo di ballo del Royal Ballet, più edificante culturalmente ma con altrettanta esposizione di gambe. Forse ancor migliori per il morale furono le recite dei pazienti paraplegici messe in piedi per il resto dell’ospedale e le partite tra reparti a freccette, ping-pong, biliardo, birilli. L’indomito Guttmann riuscì persino a persuadere il ministero a finanziare una piscina per questa miscela di lavoro e gioco in un momento in cui la Gran Bretagna era in bancarotta e il governo non poteva concedere fondi neppure alle Olimpiadi del 1948. Egli sosteneva che essa fosse necessaria per la fisioterapia sott’acqua e la ginnastica per ristabilire equilibrio e potenza muscolare ma anche, soprattutto, ai suoi occhi, per lo sport agonistico. “Per prima cosa prova tutti i canali abituali. Se poi non ci sono risultati punta direttamente alla cima”, diceva. Quando nel contesto del rigido razionamento alimentare del Dopoguerra ci furono lamentele ufficiali perché la Spinal Unit consumava troppo cibo, Guttmann rispose: “In passato i pazienti di questo reparto giacevano in ospedale per mesi, a volte anni. Ora con i miei nuovi metodi di cura, dieta inclusa possono spesso essere dimessi entro tre mesi. Questo non è caro, vero?” Come l’ufficiale medico in capo del ministero della Sanità ammise suo malgrado celebrando il 70esimo compleanno di Guttmann, “Nessun uomo con la sua passione e decisione può o deve essere un collega comodo per un amministratore.”
Questo patriottico tedesco dopo esser stato notevole direttore di due importanti ospedali tedeschi, si era visto negato il diritto di esercitare la professione in patria e a 40 anni aveva cercato di ricostruirsi una vita come umile ricercatore a Oxford. Sentendosi anche pieno di rabbia impotente per la difficoltà a comunicare in una lingua straniera che aveva dovuto imparare da zero Guttmann poteva capire dall’interno la depressione dei giovani paraplegici che avevano tutte le loro speranze per la vita vanificate e si sentivano “cancellati” per quel che riguardava lavoro, matrimonio, sport e in più “terrorizzati di muovere anche solo un dito”.
“Per evitare che i reparti vertebrali divenissero solo un ammasso di storpi senza speranza era assolutamente indispensabile esser dotati di certe condizioni di base”, insisteva il “dottore tedesco” che non aveva ancora nessuna qualifica britannica riconosciuta nel momento in cui aveva preso la responsabilità per qualche capanno prefabbricato con attrezzature minime e senza personale specializzato, nel 1944 (la sola esperienza precedente degli inservienti polacchi assegnatigli era stato spalare carbone). Eppure Guttmann era deciso a raggiungere i suoi sogni con una determinazione e una risolutezza quasi churchilliane. “Agire oggi” per “restituire questi uomini, donne e bambini dal mucchio da rottamare che erano, nonostante la permanente e profonda disabilità, grazie a misure cliniche e psicologiche, a una vita degna di essere vissuta come cittadini utili alla comunità e degni di rispetto.”
“Per evitare che i reparti vertebrali divenissero solo un ammasso di storpi senza speranza era assolutamente indispensabile esser dotati di certe condizioni di base”, insisteva il “dottore tedesco” che non aveva ancora nessuna qualifica britannica riconosciuta nel momento in cui aveva preso la responsabilità per qualche capanno prefabbricato con attrezzature minime e senza personale specializzato, nel 1944 (la sola esperienza precedente degli inservienti polacchi assegnatigli era stato spalare carbone). Eppure Guttmann era deciso a raggiungere i suoi sogni con una determinazione e una risolutezza quasi churchilliane. “Agire oggi” per “restituire questi uomini, donne e bambini dal mucchio da rottamare che erano, nonostante la permanente e profonda disabilità, grazie a misure cliniche e psicologiche, a una vita degna di essere vissuta come cittadini utili alla comunità e degni di rispetto.”
Fu proprio vedendo un gruppo di questi giovani pazienti feriti in guerra che sulle sedie a rotelle improvvisavano un’energica gara di polo con i loro bastoni, che a Guttmann venne l’idea che lo sport era la chiave della porta che avrebbe condotto agli Stoke Mandeville Games e che continuerà da oggi nelle Paralimpiadi di Londra. E non è un caso se la mascotte dei Giochi 2012 si chiama proprio Mandeville. Con la loro superiore agilità e la forza del torso i Paras (Paraplegici) riuscirono a massacrare le squadre di calciatori locali che giocavano contro di loro a polo su sedie a rotelle, tanto che Guttmann si vide costretto a introdurre la pallacanestro per evitare ulteriori bagni di sangue e ossa rotte. Raramente si sono viste gare più eccitanti e fisiche di hockey su ghiaccio di quelle delle Paralimpiadi invernali di Torino 2006 giocate nello stadio di Torre Pellice con giocatori privi di arti o p aralizzati legati allo skateboard con una lama da pattino sotto e mazze corte per spingere, guidare, colpire il disco.
Ludwig Guttmann, divenuto Sir nel 1963 e Fellow of the Royal Society nel 1973, nacque, unico maschio di quattro figli, in Slesia nel 1899 in una modesta famiglia di ebrei tedeschi. Dal padre Bernhard, un locandiere e distillatore, Ludwig ereditò l’etica del lavoro e da sua madre Dorothea, figlia di un agricoltore, la passione per la giustizia. L’istruzione era una spesa prioritaria per la famiglia, per questo frequentò il liceo classico nella città industriale di Königshütte. Nel 1917-18 lavorò al fronte come aiutante medico e l’esperienza rinforzò il suo desiderio di studiare Medicina, cosa che fece prima a Breslavia e poi a Friburgo dove si laureò nel 1924. Il crescente antisemitismo dell’Organizzazione nazionale giovanile lo indusse a fondare il Movimento scoutistico ebraico e anche a entrare nella Jewish College Fraternity dove, combattendo in un duello di sciabola, si procurò le ferite che lo cara tterizzarono per sempre.
Voleva diventare pediatra ma l’unico posto disponibile era con il neurologo e neurochirurgo professor Otfried Foerster a Breslavia il quale era un severo sorvegliante che richiedeva un impegno di 18 ore al giorno. Nel 1927 Guttmann sposò Else, figlia di un commerciante ebreo di mobili di Mulhouse da cui ebbe due figli, Dennis e Eva. Nel 1928 divenne direttore del reparto di Neurochirurgia nell’ospedale per malattie mentali di Amburgo dove acquisì molta esperienza prima di accettare l’invito di Foerster a diventare nel 1929 suo assistente principale e nel 1930 docente.
Nulla sembrava ostacolare una brillante carriera quando nel 1933 i neoeletti nazisti proibirono a tutti i medici ebrei di curare pazienti ariani. Guttmann intanto divenne neurologo e neurochirurgo all’ospedale ebraico di Breslavia. Tedesco patriota convinto, fu sconvolto quando assistette al rogo di libri non ariani all’università nel 1934. Nel 1936 divenne direttore medico dell’ospedale ebraico e presidente della Associazione medica ebraica da lui fondata. Questo gli diede la possibilità di aiutare i suoi pazienti ebrei e cristiani ricercati dalla Gestapo a fuggire in Cecoslovacchia. Si sentiva come “un soldato in battaglia”. Fino a che ai non ebrei fu proibito anche il ricovero in ospedali ebraici.
Nulla sembrava ostacolare una brillante carriera quando nel 1933 i neoeletti nazisti proibirono a tutti i medici ebrei di curare pazienti ariani. Guttmann intanto divenne neurologo e neurochirurgo all’ospedale ebraico di Breslavia. Tedesco patriota convinto, fu sconvolto quando assistette al rogo di libri non ariani all’università nel 1934. Nel 1936 divenne direttore medico dell’ospedale ebraico e presidente della Associazione medica ebraica da lui fondata. Questo gli diede la possibilità di aiutare i suoi pazienti ebrei e cristiani ricercati dalla Gestapo a fuggire in Cecoslovacchia. Si sentiva come “un soldato in battaglia”. Fino a che ai non ebrei fu proibito anche il ricovero in ospedali ebraici.
La sua posizione implicava responsabilità tremende. Nel 1938 fu convocato dal segretario dell’Autorità sanitaria nazista da cui apprese che da lì in poi ci potevano solo essere 14 medici (sui 400 esistenti) autorizzati a curare i 34.000 ebrei della Slesia. Guttmann ebbe la temerarietà di controbattere a questa impossibile richiesta e ottenne che il numero di dottori fosse aumentato a 84, ricevendo una standing ovation da tutti quanti i medici presenti. Il 9 novembre assistette alla Kristallnacht e all’incendio e saccheggio da parte delle SS della sua sinagoga liberale a Breslavia mentre molti suoi amici ebrei vennero rastrellati e inviati in condizioni orrende ai campi di Buchenwald e Sacshsenhausen. Quella notte Guttmann ordinò che ogni ebreo maschio che chiedesse rifugio venisse accolto nell’ospedale. Il mattino seguente un gruppo di azione della Gestapo e delle SS ne occupò l’edificio chiedendo chi fossero i sessantaquattro rifugiati e di che malattia soffrissero. Guttmann rispose: “E’ molto semplice: ogni infermità o latente anormalità fisica può peggiorare acutamente sotto forte stress e questo è senz’altro il caso dopo gli eventi di ieri”. Le SS gli chiesero di vedere comunque i sessantaquattro uomini e vollero sapere che malattie avessero. Guttmann riuscì a salvarne sessanta inventandosi su due piedi diagnosi ad hoc. Le SS si portarono via anche quattro medici dell’ospedale e informarono il direttore che “per il momento lei starà qui e ogni giorno ci dovrà render conto. Lei è personalmente responsabile, pena la testa, del fatto che in questo ospedale non accada nulla di irregolare”. Imperterrito e furioso, Guttmann andò, contro il parere dei suoi colleghi, dal presidente dell’Autorità sanitaria a sporgere denuncia. Quale fu il suo stupore nell’apprendere che l’irruzione delle SS nell’ospedale non era autorizzata: quattro giorni dopo giunse una lettera firmata da Himmler stesso che diceva che gli “Judenbehandler (gli ebrei dal 1933 non potevano più essere chiamati dottori) portati a Buchenwald dovevano essere rilasciati”. Cosa che avvenne, ma settimane dopo e le loro condizioni peggiorarono ed essi dovettero essere ricoverati nell’ospedale stesso; uno di loro tentò il suicidio.
Guttmann aveva resistito il più a lungo possibile ma quando nel marzo del 1939 fu segretamente avvicinato dalla British Society for the Protection of Science and Learning che aiutava gli ebrei a fuggire accettò di partire per Oxford, dove lui e la sua famiglia furono ospiti del Master del Balliol College nella sua residenza privata. In seguito venne loro trovata una casetta e ai bambini Dennis, otto anni, ed Eva, quattro, venne offerta una borsa di studio nelle migliori scuole private di Oxford. Guttmann ricevette una borsa di 300 sterline annue dalla Society e divenne Fellow di Balliol e ricercatore nel dipartimento di Neurochirurgia. Nel 1941 il dottor George Riddoch, il più noto neurologo britannico, gli chiese di presentare due documenti sui suoi studi, sottolineando “la sua fondamentale differenza filosofica nella cura delle ferite al midollo spinale”. Nel 1943 divenuto ora anche generale, Riddoch gli chiese di mettere in pratica le sue idee a Stoke Mandeville, in preparazione dell’apertura del secondo fronte. Il resto è storia.
“Se mai ho fatto una cosa buona in tutta la mia carriera medica, questa è stata l’introduzione dello sport nella cura e nella riabilitazione dei feriti al midollo spinale e di altri gravi disabili”. Nel 1948, nel medesimo giorno si aprirono a Londra le Olimpiadi e i Giochi di Stoke Mandeville con due squadre di quattordici uomini e due donne che competevano nel tiro con l’arco. Nel 1949 quattro ospedali si sfidarono a pallavolo e tiro con l’arco e il ministro delle Pensioni, il sottosegretario permanente, il suo vice e il direttore dei Servizi medici inaugurarono l’evento. Nel 1950 ci furono quattro squadre con 60 concorrenti e fu introdotto il lancio del giavellotto. Nel 1951 c’erano 120 concorrenti e vennero aggiunti tennis tavolo e biliardo. Nel 1952 ci furono i primi Giochi internazionali di Stoke Mandeville, con la presenza di una squadra olandese, e nel 1953 divennero transatlantic i grazie alla partecipazione del Canada oltre ai nuovi Francia e Israele. Le nazioni partecipanti nel 1954 furono quattordici: Australia, Austria, Belgio, Canada, Egitto, Finlandia, Francia, Germania, Israele, Pakistan, Portogallo, Olanda, Yugoslavia e Gran Bretagna. Nel 1955 si unirono Danimarca, Norvegia, gli Usa e il Sudafrica per un totale di 18 paesi e 280 concorrenti e Guttmann diede origine al British Paraplegic Sports Endowment Fund, fondazione sostenuta dall’Unilever.
Il famoso chirurgo e detentore di medaglia olimpica, Lord Porritt ne era il presidente. Nel 1956 l’Italia inviò una squadra di fioretto e nel 1957 c’erano 360 partecipanti e 13 nuove nazioni. Nel 1960 ci furono i primi Giochi internazionali Stoke Mandeville a Roma, con la first lady donna Carla Gronchi come patrona. Nel 1969 raccolse i fondi e costruì a Stoke Mandeville lo stadio e il centro sportivo per disabili Sir Ludwig Guttmann, tutto in un solo anno. Un’alluvione ritardò i lavori e perciò egli convocò tutti i capimastri dicendo loro: “Signori, Sua Maestà la Regina ha accettato di presenziare alla cerimonia ufficiale di apertura dello stadio il 2 agosto. Se decidete che non potete completare in tempo i lavori dovrò informare Bukingham Palace di conseguenza e la visita della Regina dovrà essere cancellata. Ora sta a voi decidere. Io tornerò qui t ra un’ora per sapere che cosa avete deciso”. La Regina inaugurò lo stadio il 2 agosto 1969. “Pochi uomini hanno così appieno esemplificato le vere virtù della vecchia Germania: devozione al dovere, attenzione sistematica ai dettagli e infaticabile perseveranza. Se non avesse avuto la tenacia di essere nelle corsie ogni notte fino a quando i suoi ordini fossero stati eseguiti in pieno, tutta la sua opera sarebbe stata vanificata”, recitava il necrologio della Royal Society in occasione della sua morte nel 1980. Nel 1976 tutte le possibili disabilità furono incluse nelle competizioni internazionali, compresi judo per ciechi e atletica. Oggi, nel 2012, abbiamo la più grande Paralimpiade mai registrata con 4.200 atleti a competere in ventuno eventi e 503 eliminatorie. I biglietti sono stati esauriti in un baleno e tutti i commentatori del canale ufficiale per questi giochi, Channel Four sono sportivi con vari tipi di disabilit&ag rave;. Tutto ciò è un monumento in memoria della visione e del coraggio di un solo uomo, Sir Ludwig Guttmann.
di Richard Newbury
Fonte: il Foglio.it
mercoledì 29 agosto 2012
"Noi in...abili" di Floriano Di Francesco
Qualche mese fa insieme all'amico e professionista del settore Floriano di Francesco, ho visto e commentato il film "Winter il delfino" (commento e riflessione già pubblicata su questo blog). Il film narra la vera storia di un delfino che viene intrappolato in una rete, ferito, salvato dagli umani, ma costretto all'amputazione della pinna; riuscirà a sopravvivere e a nuotare nuovamente grazie ad una protesi creata appunto dall'uomo.
Con Floriano, nei giorni successivi abbiamo scambiato diverse opinioni e riflessioni soprattutto sul fatto che tutto può essere visto come un ostacolo, ma anche un'opportunità...Ad esempio stavamo parlando del campione sportivo Oscar Pistorius (uomo ed atleta senza gambe che è stato un simbolo alle ultime olimpiadi di Londra 2012) dove qualcuno guardandolo con le sue protesi esclama "poverino è senza gambe...", invece lui vive una vita fantastica grazie proprio a queste protesi che gli consentono una vita più che normale.
Ho chiesto a Floriano di scrivere una riflessione, attraverso la sua esperienza umana e professionale proprio su questo argomento e sono felice di pubblicarla così come è stata scritta.
Buona lettura e Grazie Floriano
"NOI IN...ABILI" di Floriano Di Francesco - "Ad un certo punto della mia vita qualcuno, di molto importante per me, mi ha indotto ad intraprendere una strada...essere tecnico ortopedico...attenzione però!!! Non, fare il tecnico ortopedico, ma ESSERE tecnico ortopedico.
Negli anni, il ruolo che svolgo in questa società, mi ha spinto sempre più verso il prossimo....a tal punto che mi veniva naturale pormi nelle vesti della persona che avevo di fronte e a trattarla (professionalmente ma soprattutto umanamente parlando) come io avrei desiderato essere trattato.Ho avuto modo di seguire pazienti con diverse patologie: paralisi cerebrale infantile, ictus, sclerosi multipla, sclerosi laterale, para e tetraplegia, tumori, distrofie di vario genere..e tanti altri che non sto quì ad elencare altrimenti mi diventi triste.
La cosa che accomunava tutte quelle persone, era il coraggio.Il CORAGGIO ...una parola apparentemente buttata lì......ma che è insita in queste persone...... chee difficilmente, noi "comuni mortali", riusciamo ad intravedere negli esseri umani colpiti da una qualsiasi disabilità.
Diamo per scontate tante cose, anzi troppe.....e questo mi fa incazzare...!!!
Ma, mi fa incazzare così tanto che vorrei farti un esempio (a grandi linee ovviamente) di come vive il TRAUMA una persona che da ABILE..di colpo...i ritrova DISABILE!!!
Siamo abituati a pensare, che il trauma (qualsiasi esso sia) causi una disabilità. Ma ti sei mai chiesto quanti traumi una persona diversamente abile debba superare?
Prendo come esempio la paraplegia da incidente stradale: quando vediamo una persona in carrozzina...cosa facciamo?ce la siamo mai posta questa domanda?
Te la do io la risposta: la guardiamo a malapena... e sai perchè? Perchè ...noi tutti ABBIAMO PAURA DELLA DIVERSITA', non ci chiediamo mai di cosa ha dovuto "passare ed oltrepassare" questa persona...quante difficoltà ha dovuto superare, quanti traumi è stata costretta a vincere...ci limitiamo a vederla questa persona...ma mai a guardarla...diciamo dentro di noi: poverino/a ritrovarsi li seduti...peccato è così bello/a...mamma mia!!!
E qualcuno ha il coraggio di dire anche...non lo posso vedere!!!
E nella sua testa penserà "poverino/a mi fa pena"....
A me viene da sorridere, si perchè la maggior parte di noi non ha idea di ciò che ha dovuto attraversare una persona che passa dall'abilità all'inabilità motoria.
Proviamo insieme a mettere in ordine cronologico tutti i traumi e, a capire quanto sia eroe questa persona:
1) il trauma fisico è il primo tra tutti i traumi, è la cosa apparentemente più difficile da superare, si combatte a volte tra la vita e la morte, vinta la morte;
2) si viene a conoscenza che si è passati dall' abilità all'inabilità ...permanente...l'accettazione a questa è ancor più dura del "1°trauma". Si attraversano momenti bui, dove si inizia a pensare, a chiedersi del perchè si è rimasti in vita e, a non farsene una ragione..."era meglio morire...ma perchè? no..noooo.....preferisco la morte ad una vita di merda come questa...!!! "
3) poi..il calvario della riabilitazione, dove ogni giorno, per mesi, si è costretti a lavorare, a lavorare sodo, ma come nessuno di noi immagina. Sviluppare strategie, sviluppare i muscoli residui, sforzarsi, sudare, fare i conti con la mancanza dell'autonomia che concettualmente noi tutti abbiamo.Basti pensare ai semplici e così naturali bisogni fisiologici, o vogliamo parlare di come girarsi a letto? O come fare a passare dalla posizione supina a quella seduta? O al puro e sano sesso? Od uscire ed entrare nell'automobile? E riprendere la patente?-successivamente...la doverosa ed obbligatoria ACCETTAZIONE.. Ci siamo mai chiesti quanto possa essere difficile chiedere aiuto?... ahahah...no, non è come lo stai immaginando!!!!
Quì non si tratta di chiedere semplicemente un aiuto, quì è indispensabile costringersi ad accettare un assitenza che è : soccorso, appoggio, sostegno, cooperazione, contributo morale e materiale...tutto quello che si era capaci a fare e gestire, ora è impossibile.
Solo con un supporto morale, psicologico e fisico si arriva all'accettazione di tutta questa merda che gli è piovuta addosso.
In quel momento, chi ne viene colpito/a odia TUTTI: i suoi cari, le figure professionali che lo circondano, quali: il suo "caro e devoto fisioterapista", i medici, l'infermiere/a che lo vede nella sua più completa nudità (mentale e fisica), gli inservienti che gli puliscono la stanza, il tecnico ortopedico che andrà a "vendergli" la sua prima carrozzina...Momenti in cui vorrebbe uccidere od uccidersi....pittosto che accettare tutto ciò. Allora sceglie la strada più difficile ke gli propone l'istinto di sopravvivenza...l'ACCETTAZIONE!!!
Poi...si ricomincia a vivere, dopo aver iniziato a riimparare a muoversi e gestirsi, farsi rivedere in pubblico, ostentando serenità e tranquillità, affinchè egli/ella non venga commiserato/a da nessuno; e questa è un'altra violenza che deve fare a se stesso.Le pacche sulla spalla gli/le danno fastidio, ogni parola d'incoraggiamento lo/la urtano, ri/acquisire un semplice rapporto col sesso opposto la uccidono, la devastano..(hahah...rido perchè tu, quanto me ora, ti stai immedesimando in questa persona...ahaha...ma nn ci riuscirai mai!!! E sai perchè? Perchè il "vero peggio" nn è ancora arrivato..."
..."ma come faccio a muovermi? A rientrare in casa?....Abito al secondo piano !!!. In bagno? In bagno come ci vado se dentro c'è la lavatrice? Oddio ma la camera da letto è stretta !!!... comincia a girare, a muoversi, ad uscire con gli amici (quelli rimasti) e ad affrontare le difficoltà. "ma se ora esco dove c--zo la metto 'sta carrozzina?!! Non posso obbligare i miei amici a comprare una station wagoon!!!! Vabbè!!! Ci provo con la Yaris di Fabio!!!! Sperando che non ci siano st---zi che si fottano il parcheggio per disabili!!
Questo pub uno scivolo? No eh? Che serata di m--da!!!! Speriamo che domani andrà meglio...hmm....dubito!!! Devo andare in banca, ma ricordo che non ha un ingresso adeguato!!!! "
...e tanto altro ancora...e continua.... Quante persone amano pesare sulle spalle degli altri e/o della società?
Nessuno credo!!! Anzi ne sono sicuro! Allora comincia a pensare che dovrà trovare un'alternativa.... si, un lavoro!!!!! ed allora prova a far richiesta ovunque...al comune, in aziende private, come centralinista in un call center MA...NIENTE...il silenzio più totale!!!
"Si, sarai capace gli dicono, ma...sei disabile!! (lo pensano ma non lo dicono per ipocrisia).
E pensa, " ma come? non era questa la società che accettava gli "handicappati?"
Allora chiede aiuto alle associazioni...che non potendo essere "schietti", nella risposta...gli offrono/chiedono una collaborazione a partecipare attivamente nelle organizzazioni degli eventi pro/per disabili, ma se non fosse pronto gli offrono un supporto psicologico.."ma io non sono pazzo, VOGLIO SOLO LAVORARE !!!...
Non aggiungo altro, considerando che tutto ciò che ho elencato è solo l'inizio. Sarebbe bello, un mondo perfetto, se tutti noi ci considerassimo uguali....!!!
Una persona diversa, che sia essa nana, altissima, sfigurata, senza un arto o senza due, in carrozzina...per NOI sarà sempre una persona diversa, cioè una persona inadeguata ai canoni di "normalità" che abbiamo stampato nelle nostre menti.
Basta coi falsi moralismi della serie:nooo, per me una persona con o senza disabilità non fa differenza, anzi se "li vedo li aiuto"...poverini...nooo, io li rispetto, non parcheggio mai nei posti riservati ai disabili...AHAHAH...
Se sei una rondine e voli con loro....sei mormale, ma se sei una rondine e cammini affianco agli asini, non sei normale..."
domenica 26 agosto 2012
sabato 25 agosto 2012
Unire i puntini...di Steve Jobs
"...Quindi, non è possibile "unire i puntini" guardando avanti; si possono unire solo a posteriori, guardando indietro. Pertanto bisogna avere sempre fiducia che i puntini in qualche modo, nel vostro futuro, si uniranno..."
(Steve Jobs - discorso Univ Stanford)
(Steve Jobs - discorso Univ Stanford)
venerdì 24 agosto 2012
IN...ABILE
Da tempo tratto su questo blog argomenti e storie che riguardano il mondo dei "disabili". Mi sono accorto, però che alcuni termini usati risultano offensivi per queste persone (esempio, disabili, diversamente abili, handicappati, ecc). Parlando con una persona a Montesilvano, mi ha detto "noi non siamo una categoria, siamo Persone", affermazione che condivido in pieno.
Chi frequenta il mondo dei blog, questo blog, o ne ha uno, sa benissimo che occorre catalogare i vari post per non perderli ed appunto c'è una funzione chiamata "etichetta" (se vogliamo un termine brutto soprattutto se vogliamo abbinarla a storie di Persone.
Un mio carissimo Amico, nonchè uno stimato professionista nel settore, Floriano Di Francesco mi è venuto in aiuto. Ecco il nostro colloquio:
D: Floriano, ho necessità di catalogare le storie che scrivo con un'etichetta, quale parola potrei usare per sintetizzare i concetti?
R: Prova con "IN...ABILE"
D: ..."In...ABILE"...interessante, potrebbe risultare offensiva per qualcuno?
R: Chi si dovrebbe offendere? IN.....ABILI non offende nessuno... Chi può dire chi è l'ABILE o l'INABILE? Tu sei abile? io sono abile? non credo proprio. Mettiti seduto su una carrozzina e poi facciamo i conti......oppure fammi subire un trauma e poi vedremo se sarò capace a venirne fuori o ad esorcizzare il problema come fanno in tanti che si ritrovano seduti, pertanto la parola "composta" IN...ABILE non offenderà nessuno, perchè bisogna partire dal concetto che le persone abili sono quelle che hanno un handicap e, nonostante ciò riescono a vivere nella nostra società che non è pensata o progettata per le persone con una disabilità...
La disabilità o l'handicap....per la maggior parte di noi è un PRECONCETTO, per l'inabile è una REALTA', pertanto non giriamoci troppo attorno perchè non dobbiamo avere paura di usare un termine che non è altro che LA REALTA'.
Dobbiamo aggiungere però che spesso, alcune persone, sviluppano alcune abilità che sono superiori a quelle dei "normodotati", ma queste sono altre storie che tratteremo nei prossimi post...
In sintesi questo è il significato che voglio dare a questa blog/etichetta. Grazie Floriano
mercoledì 22 agosto 2012
La strada per la felicità
LA STRADA PER LA FELICITA' NON E' DRITTA.
Esistono curve chiamate Equivoci.
Esistono semafori chiamati Amici.
Luci di sicurezza chiamate Famiglia.
E tutto si compie se hai:
una ruota di scorta chiamata Decisione.
Un potente motore chiamato Amore.
Una buona assicurazione chiamata Fede.
E abbondante carburante chiamato Pazienza.
(Fonte sconosciuta)
Esistono curve chiamate Equivoci.
Esistono semafori chiamati Amici.
Luci di sicurezza chiamate Famiglia.
E tutto si compie se hai:
una ruota di scorta chiamata Decisione.
Un potente motore chiamato Amore.
Una buona assicurazione chiamata Fede.
E abbondante carburante chiamato Pazienza.
(Fonte sconosciuta)
Il Guerriero... di P.Coelho
La gente dice: "E' matto". Oppure: "Vive in un mondo di fantasia". O ancora: "Come può confidare in cose prive di logica?". Ma il Guerriero continua ad ascoltare il vento e a parlare con le stelle. (P.Coelho)
martedì 21 agosto 2012
sabato 18 agosto 2012
Don Camillo e Peppone
"...ecco ricomincia l'eterna gara nella quale ognuno dei due vuole disperatamente arrivare primo...però se uno dei due si attarda l'altro l'aspetta per continuare assieme il lungo viaggio fino al traguardo della vita..." (Guareschi)
martedì 14 agosto 2012
lunedì 13 agosto 2012
Felicità
"Essere felici non significa che tutto deve essere perfetto. Significa aver deciso di guardare oltre le imperfezioni"
(Fonte sconosciuta)
(Fonte sconosciuta)
"La mia vita è uno zoo"
LA MIA VITA E' UNO ZOO - Un libro, un articolo di giornale, un film, ma soprattutto una Storia VERA.
Le storie VERE raccontate attraverso un libro, una pellicola, hanno un fascino speciale: ci immedesimiamo e ne veniamo coinvolti, sorridiamo e ci commuoviamo. Sono per noi fonte di ispirazione e motivazione, poichè pensiamo dentro di noi"Se lo ha fatto lui/lei posso farlo anch'io!".
Questo film (questa storia) parla di famiglia, di animali, ma soprattutto di cambiare la propria vita e quella della famiglia ed avere la possibilità di scrivere un nuovo inizio...
La vera storia si svolge in Inghilterra, anche se per ragioni cinematografiche il film viene girato in California.
Durante l'anno capita (mi capita) soprattutto a fine dicembre ed in estate di fare un "bilancio" della mia esistenza professionale e personale; in questi giorni sogno e cerco di riprogrammare la mia vita, anche se con il passare degli anni mi sono accorto che bisogna "programmarla di meno e viverla di più"...
Che questo film, che questa storia possa essere di ispirazione per ciascuno di noi, in modo da vedere il nostro futuro con nuovi occhi...
Buona lettura e buona visione.
"Papà, perchè non ci racconti più le favole?". "Perchè adesso una favola la stiamo vivendo".
IL FILM - tratto da www.mymovies.it - Benjamin Mee è un giornalista temerario che scrive di avventure e di esperienze estreme. Padre appassionato di una bambina e di un adolescente ha perso la moglie da pochi mesi e prova a conciliare lavoro e questioni domestiche. Il dolore dei suoi figli e l'incapacità di vivere una casa e una città che lo hanno visto felice lo convincono a licenziarsi e a comprarne una in campagna, a nove miglia dalla civiltà. Il nuovo alloggio comprende sette ettari di terreno e uno zoo affollato di animali e dei loro zelanti custodi. Deciso a cambiare vita e intenerito dall'entusiasmo della sua bambina, investe sul futuro e acquista l'intero pacchetto. Inizia per Benjamin una straordinaria avventura, questa volta da vivere.
Può capitare qualche volta che una sequenza sola definisca il destino di un film. Nella cassiera nera in conversazione col protagonista di Matt Damon c'è il senso di La mia vita è uno zoo e probabilmente del cinema tutto di Cameron Crowe. Un cinema che si perde e si ritrova sempre, un cinema con due anime, una dolce e una amara, un cinema colpevole di cuore e abitato da ‘perdenti' pieni di grazia. Come Drew Baylor in Elizabethtown, che deve fare fronte a un lutto e a un fiasco, come Benjamin Mee, che deve gestire un lutto (di nuovo) e una paternità. Ispirato a una storia vera e al romanzo che l'ha raccontata (“We bought a Zoo”), La mia vita è uno zoo è un percorso di risalita e insieme una parabola filosofica sul comportamento umano. Perché al centro della filmografia del regista americano ci sono sempre le persone, quelle che fanno la differenza scattandoti una foto ideale o incoraggiandoti dietro la cassa di un supermercato, quelle che spostano più avanti, oltre il dolore e l'assenza, quelle per cui è più importante essere, quelle che si può sempre ricominciare da capo, quelle che ritrovano l'ispirazione e con quella la rigenerazione. Il trailer del film:
"Per cambiare, serve il coraggio di rischiare. Ma si rischia di più continuando a vivere una vita che non ci appartiene".
Always Coca-Cola (spot 2012)
LET'S LOOK AT THE WORLD
A LITTLE DIFFERENTLY
I sogni...di G.B.Shaw
"Certi uomini vedono le cose come sono e dicono: "Perchè?". Io sogno cose mai esistite e dico: "Perchè no?".
(George Bernard Shaw)
(George Bernard Shaw)
venerdì 10 agosto 2012
Aforisma di Proust
"L'unico vero viaggio verso la scoperta non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi, ma nell'avere nuovi occhi".
(Aforisma di Proust)
(Aforisma di Proust)
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